Quando sono uscito dal cinema mi sono fermato a chiacchierare con due miei amici sul significato della pellicola che avevamo appena guardato e due spettatori a noi sconosciuti hanno aperto bruscamente le porte e si sono fatti eco tra loro: <<Che porcata, mi sono rotto il cazzo di questi registi che lo fanno strano solo perché non hanno niente da dire>>
Il film non può essere compreso se non si tiene in giusta considerazione il titolo: Sotto la pelle.
Un’analisi noiosa del problema deve iniziare dalla trattazione respingente dell’esperienza aptica a cui il cinema d’autore ha deciso di dedicarsi, a partire da quel capolavoro che è Il silenzio degli innocenti: la pelle come paradigma semantico e narrativo non tanto da contrapporsi allo sguardo voyeuristico che caratterizza ogni esperienza cinematografica, quanto come compagno di banco nella sinestesia della fruizione.
La pelle rappresenta metaforicamente un confine tra interno ed esterno. La sfera dell’interiorità è il luogo deputato alla costituzione del soggetto, la quale costituzione si determina sia attraverso la coscienza di sé, sia attraverso l’esperienza del mondo esterno al confine della pelle. Il cinema si è sempre concepito in relazione all’oculocentrismo; non a caso capolavori quali Blade Runner, Arancia meccanica, Persona e un’infinità di altre pellicole, hanno usato l’immagine dell’occhio come meccanismo metacinematografico proprio per sottolineare (o, se siete femministe, denunciare) l’approccio visivo della fruizione estetica. Il silenzio degli innocenti ne produce una mirabile parodia, Under the skin una decostruzione teorica. Non a caso il film di Jonathan Glazer inizia con una citazione da 2001: Odissea nello spazio, dove non sono i pianeti ad essere allineati, bensì le parti costitutive di un occhio. Quindi l’organo ophtalmico ha perso l’attributo della naturalità per diventare un meccanismo smontato che si rende fruibile come parodia di un film di Kubrik. È la critica più forte che io abbia mai visto nei confronti del regime di senso prodotto dalla semantica dell’occhio.
Ed è solo l’inizio. Il resto del film non fa altro che portare alle estreme conseguenze la costituzione del sé che avviene sotto la pelle di Scarlett Johansson (fatto che da solo è sufficiente a trasformare la pellicola in psicologicamente molto erotica). Il tatto non solo permette un contatto con il mondo esterno, ma anche la penetrazione, la collisione, il taglio, la manducazione. Under the skin decide di approfondire il tema dell’inglobare come esperienza costitutiva della coscienza, e quindi propone uno sguardo femminista, nel senso che cerca di delineare l’esperienza della penetrazione sessuale dove l’omuncolo maschile si fa inglobare all’interno del corpo femminile, una zona nera che ricorda molto un’ideologia immaginifica alla David Lynch. È da qui che nasce il problema del film: il sé, questo alieno nero e neutro dentro di noi che, come l’antagonista de Il silenzio degli innocenti, desidera indossare una pelle femminile che gli garantisca una nuova esperienza tattile, assorbe sessualmente gli eventi che determinano il suo costituirsi. Insomma, l’uomo è ridotto al neutro nero e vuoto della coscienza, ma la donna è schiacciata sulla superficie della sua pelle. A dire il vero a me questa sembra ancora una posizione molto maschilista.
Ianex dice che è un film sullo stupro.
Per me è su un’aliena che poi se pente.
In ogni caso troppo terrificante per capire che temi ci sono dietro.
Me lo porterò nella tomba, sto terrore glazeriano.
Non voglio sapere cosa significa “manducazione”.
Secondo me parla sia di stupro che di un’aliena che poi si pente, ma anche di tante altre cose. Alla fine però non ho capito se ti è piaciuto oppure no.
Non te lo dirò mai cosa significhi “manducazione”.