Mi sono mangiato i miei fratelli quando ancora eravamo delle folate di vento e gareggiavamo sotto il ventre dei cavalli al galoppo, tra le rocce e sopra la risacca. Me li sono mangiati, e dalla pancia di mia madre sono nato soltanto io, con un taglio secco, in una schiuma di sangue e carne.
Poi ho pianto, ma quello – chi più chi meno – lo fanno tutti.
Dicono che io abbia continuato a piangere per giorni. Mia madre, nel suo dormiveglia postparto, sentì un’infermiera dire ad alta voce «io adesso lo ammazzo quel Pavarotti», dopo di che inspirò ed espirò una serie di volte, mi prese e mi portò via dalle stanze della maternità, mi fece scivolare in una culla e, passato qualche mese, iniziò con mio padre a imboccarmi usando una siringa da cavallo.
Farcirmi. Iniziarono a farcirmi con una siringa da cavallo.
Iniziai ad avere certe visioni della mia vita precedente, o forse si trattava di quella dei miei fratelli. Me li ero mangiati e adesso avrei avuto mie le loro visioni.
Dopo che trascorse qualche anno dalla mia nascita, qualcuno disse a mia madre che avrei dovuto sempre indossare qualcosa di nero perché avrei attirato su di me i deliri del mio prossimo. In mezzo a un prato verde, nei pomeriggi estivi della Pianura Padana, io stavo immobile e gli altri ragazzini mi chiamavano l’Uccellaccio del malaugurio.
«È arrivato l’Uccellaccio. Non passate la palla all’Uccellaccio», dicevano. A me non dispiaceva, era per i miei fratelli che avevo paura, ma a quanto pare nessuno sembrava vederli, probabilmente nemmeno io.
Sono cresciuto e sono andato a cercarli nei cretti dei vecchi pini abbattuti. Mettevo la mano nella sabbia e speravo di trovarli dove diventava umida, oppure nel silenzio rotto dalle gocce che cadevano dalle fronde sulla neve alta due metri; nell’instabilità del piede che correva veloce sui sentieri, incespicava sulle rughe scure della terra.
Ho sperato che mi indicassero la via nelle notti prive di luna; volevo così tanto che la paura mi mettesse da parte, ma sono gli uomini soli il suo pasto preferito e io le ero stato servito su un piatto d’argento. Mentre la paura mi divorava, io cercavo i miei fratelli nell’alone del prossimo lampione, quando quello passato lo avevo lasciato alle spalle ormai da un centinaio di passi.
Non li ho ancora trovati, ma continuerò a cercarli negli occhi liquidi delle bestie, e un giorno, quando sarò morto – come tutti –, finalmente ci incontreremo e dopo aver corso l’uno al fianco dell’altro è probabile che toccherà a me essere mangiato.
Avresti potuto cacciati due dita in gola e vomitarli!!!!
Ve lo immaginate!?
Un feto che si induce il vomito nella pancia della madre!!!!