Il titolo originale del film di Hirokazu Kore’eda che ha fatto sballare i critici al festival di Cannes è Manbiki kazoku, che in giapponese significa più o meno “la famiglia dedita al taccheggio”. Come spesso avviene, tuttavia, in italiano il titolo è stato reso in maniera piuttosto libera, facendo sparire ogni genere di riferimento ad appropriazioni indebite e tenendo invece l’unica parte che interessava alla distribuzione: la famiglia. La manovra, certamente giustificata da beghe di traduzione e marketing, ha tuttavia qualcosa di profondamente ingiusto, e ricorda quelle storie in cui il giovanotto ordinario con la testa sulle spalle rimedia il cabinato e l’impiego di lusso, mentre al ragazzetto scapestrato con un innegabile parterre di talenti non resta che sgobbare in qualche laido magazzino e sposare una rigida dieta di alcool e carboidrati. Per quanto non troppo attraente se sbattuto su manifesti 40×60, il limpido concetto di taccheggio è pur sempre intriso di un mix di creatività, adattabilità e disperazione mai eguagliato da nessun altra forma d’arte e/o pratica sportiva, ed è triste saperlo iniquamente estromesso dalle bacheche dei cinema italiani. In un intempestivo moto di contrappasso ecco dunque quattro storie di taccheggio come ciò che in effetti è: autorappresentazione, atto performativo, rivendicazione estetica, affermazione sociale e in una parola principio di realtà.
1.
Tra la primavera e l’estate del 2010 il sole sorgeva proprio come adesso, ma era un po’ più sbiadito o un po’ più luminoso a seconda delle mattine. Apro gli occhi in una stanza in affitto in una città straniera, cerco nel posacenere il mozzicone della sera prima e passo l’ora successiva a chiedermi in che modo quei risvegli, quasi sempre dopo l’ora di pranzo, contribuiranno alla definizione di un futuro radioso che, senza un motivo preciso, appare sempre più indistinto. La casa produce rumori. Gli abitanti della casa producono rumori. A volte capita di alzarsi col frullio degli uccelli, penetrati dalle finestre durante la notte e rimasti intrappolati dietro gli avvolgibili. Gli stipetti della cucina sembrano colpiti da desolazione endemica, sistematicamente saccheggiati da altri tipi di animali.
Le commesse del Minipreço prendono il minimo sindacale, forse anche meno. Sospetto sia per questo che lavorano col dinamismo di un gruppo di paraplegici sbronzi fradici. Mi guardano entrare come ogni giorno, ciondolando il sacchetto del fornaio specializzato in tortini di pollo, ma la realtà è che non mi vedono: sono invisibile. Raggiungo il settore bevande attraversando il reparto carni fresche, le cui etichette sono inspiegabilmente vergate in cirillico. Gli scaffali, dopo il passaggio delle casalinghe maghrebine, ricordano terribilmente un diorama del mio cuore. Come ogni giorno mi apro una lattina di Coca e me la scolo su una cassa di bottiglie di plastica, mangiando il mio pasticcino di carne. Ogni tanto una commessa passa per fare non si sa cosa. Mi guarda, la guardo, ci guardiamo. Nessuno parla, non succede niente.
2.
Durante la gita scolastica a Roma, S. sottrae un oggetto da un negozio in zona piazza Navona, e me ne fa dono. L’oggetto in questione è un piccolo cilindro di plastica grigia, che si apre con un coperchio a vite trasparente. All’interno un disco di gommapiuma color crema su cui riposano brillanti pezzetti di plastica a forma di goccia, simili a decorazioni per danarose donne indù; ma. Non c’è alcuna superficie adesiva da far aderire alla pelle, non c’è un libretto di istruzioni, non c’è un’immagine esplicativa, solo pezzi di plastica con suggestione esotica che sembrano dire “Cosa vuoi da noi? Non vedi che siamo molto occupati?”. Vorrei chiedere a S. cosa sia quell’oggetto, perché lo abbia rubato e poi abbia voluto regalarmelo, ma non lo faccio: accetto il dono.
Incapace di utilizzarlo, conservo il cilindro in plastica con tutto il contenuto per circa quindici anni. Ogni tanto lo apro, in cerca di illuminazione. Un giorno mi accorgo che il disco di gommapiuma si è lentamente deteriorato incollandosi alla paccottiglia simil-indù, la quale ha partecipato alla fusione depositando quasi per intero i suoi colori sul disco stesso, rivelando così la propria essenza: scaglie tristi, simili a denti e del tutto inutili. Capisco allora ciò che S. aveva voluto comunicarmi, e cioè che sottrarre un oggetto inservibile – ma non per questo (o appunto per questo) privo di prezzo (anche piuttosto notevole) – il cui destino (dell’oggetto) sarebbe stato comunque quello di attendere inerte il processo di deterioramento – processo che si era compiuto sul mio comodino come si sarebbe compiuto in qualsiasi altro luogo sul pianeta – giungendo finalmente a mostrare il proprio essere superfluo da ogni punto di vista, significava in sostanza sottrarre un oggetto senza alcun valore, e dunque non sottrarre niente.
3.
D. fa questa cosa che saccheggia i duty free. I duty free, i negozi dove non paghi le tasse, quegli degli aeroporti, e nessuno la becca mai. D. fa la cantante d’opera, ed è sempre molto elegante. Prende l’aereo in continuazione per esibirsi in teatri piccolissimi, che forse non esistono neppure. La incontro a Madrid in casa di un’amica comune: entra e svuota sul tavolo uno zainetto da viaggio, liberando circa trecento euro tra trucchi, rossetti, creme e altre cose i cui nomi non sono ancora stati inventati. Dice di scegliere quello che preferiamo, che le cose che ha preso per sé le ha già messe da parte in una borsetta apposita.
4.
Il mio amico N. ha un part-time schizofrenico nell’editoria, con una sfilza di straordinari mal pagati da violazione dei diritti umani. Le rare volte che si reca al supermercato si fa consigliare dal personale bottiglie costose, che in seguito porta a casa senza pagare. Alla guardia giurata che lo fermerà, in un sabato pomeriggio del futuro, dirà che è cosa lecita appropriarsi di ciò che è già nostro.
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