Nei mesi scorsi ho provato più volte, senza successo, a scrivere qualcosa di Twin Peaks: The Return.
Sentivo lo sguardo affogare in una prospettiva clinica, che di analisi viveva e di analisi moriva. Più cercavo di allontanarmi dall’autoreferenzialità del «racconto di una visione» e delle «emozioni procurate», più mi sembrava di affondare nel solipsismo della critica che parla unicamente a se stessa. Un problema tristemente opposto e analogo.
Così ho deciso di partire da me, che vuol dire autobiografia, pensieri sparsi, frammenti sfilacciati che si fatica a ricondurre a un qualche senso.
Episodio 1 – Autobiografia
Ho sentito parlare per la prima volta di Twin Peaks da alcuni amici durante gli anni dell’università. Per descriverlo si usavano i superlativi tipici di quel momento della vita, e un vasto campionario di espressioni di cui ancora non ci vergognavamo («un’esperienza unica», «un capolavoro epocale», «una foresta di simboli esoterici» e via così). La durata monstre delle prime due stagioni, in anni in cui il binge-watching non era ancora di moda, sembrava più un incentivo alla visione che un deterrente. Faceva parte della mitologia dell’opera.
Ecco il primo elemento che scolpisce Twin Peaks in un qualche altroquando della mia vita: avevamo tempo allora, pomeriggi e serate da dedicare a quelli che erano, insieme, i nostri sogni e gli incubi di Lynch. Guardare Twin Peaks era insomma un modo, in quegli anni, di piegare liberamente il tempo nella direzione che volevamo dare alle nostre vite.
I miei compagni di visione furono due degli allora coinquilini. Guardandomi indietro, sicuramente le figure più importanti che incontrai in quegli anni. Mentre loro erano entusiasti dello stile e dell’atmosfera di Twin Peaks, io ero rapito dall’elemento mysterio ma faticavo a digerire gli elementi pop e (anti)soap opera. Tocca ammettere, a posteriori, che sono sempre stato un professorino del cazzo. Per molte ore e giorni, in ogni caso, le musiche di Badalamenti e il «chi ha ucciso Laura Palmer?» mi inchiodarono sul divano. Con le rivelazioni e il tracollo qualitativo della seconda stagione persi però interesse e non conclusi la visione. Quanti anni sono passati («What year was that?»)? 10? 12? 15? Abbastanza perché mi allontanassi, un po’ alla volta e per ragioni che ancora non capisco, da entrambi i coinquilini. Loro, non frattempo, non si parlano da anni.
Anni più tardi, un’altra vita. Quei momenti di entusiasmo, in una relazione, in cui provi a costruire un presente di esperienze in comune, nella speranza che diventi un passato condiviso e felice a cui aggrapparsi nei momenti di crisi. Ho ricominciato a vedere Twin Peaks, rigorosamente dall’inizio, con la futura madre dei miei figli. Sarebbe stato più facile e meno ampolloso dire «con quella che oggi è mia moglie», ma non siamo sposati. Non mi è tuttora chiaro se è perché non ho voluto io, se non ha voluto lei, o se è solo perché ogni tanto la guardo con gli occhi di Bob quando scavalca il divano e irrompe in primo piano. Sia come sia, ci siamo visti entrambe le stagioni di Twin Peaks insieme, e stavolta siamo arrivati fino alla fine.
Avvicinandoci all’oggi, la mia passione per il cinema era cresciuta. Col solito, noioso approccio analitico avevo completato la filmografia di Lynch e rivisto poi molte delle sue cose migliori. All’annuncio di una terza stagione di Twin Peaks mi presentavo con un mix improbabile tra la fiducia nel «grande autore» e lo scetticismo di chi teme una minestra riscaldata. E poi, nel frattempo, investire 15 ore della propria vita negli incubi di un visionario era diventato più una questione di «ritagliarsi piccoli spazi pre-programmati» che un sonno a-temporale a cui abbandonarsi.
Il tempo è una puttana, si dice. Una puttana molto malinconica, aggiungerei. I coinquilini ormai lontani, una ragazza stanca e troppo impegnata. Twin Peaks: The Return si è trasformato in un affare di visioni personali e private.
E così, solo, sono piombato nei paradossi temporali della nuova stagione. Le incongruenze e le distorsioni temporali della mia vita, frammentate nei ricordi, sono divenute quelle della stessa Twin Peaks. Una serie che sembra vivere sospesa, fuori, sopra le nostre vite, e alimentarsi del nostro stesso cambiamento. Una serie che parla a noi, che non ci non riconosciamo più nell’immagine allo specchio eppure siamo condannati, da una profezia che risale ad anni lontani, a rimanere sempre noi stessi. A ritornare al punto di partenza, a vedere tutto succedere di nuovo, con una serenità che è assenza, rassegnazione, ma che vorremmo fosse anche, per un momento, la sensazione di avere un passato, di aver vissuto davvero.
Che dire? Un brutto trip. Un brutto trip.
La parte autoironica è quella che più apprezzato. Mi spiace per la malinconia. Un pezzo macrocefalo, il tuo. Avrei voluto leggere un pó di più dopo tante (intriganti) premesse. Per me Il Ritorno è stata un’esperienza altrettanto solitaria (e notturna, visto in diretta perlopiù) di una bellezza e spavento da far quasi impallidire le prime stagioni. Auguri e figli maschi.