Alla fine della proiezione di The Wife, uscendo dalla sala, ho rullato una sigaretta e sono andato a fumarla seduto nella prima panchina libera della piazzetta su cui affaccia il piccolo cinema di quartiere; piccolo ma famoso, citato pure da un noto cantautore in una sua canzone. Lì, seduto, mi sono guardato intorno.
Nella piazza ci sono due locali, uno a destra del cinema, l’altro a sinistra. Sono agli antipodi sia come posizione che come stile. Uno è grande e chic, ma impregnato di quell’eleganza un po’ stucchevole tanto da apparire goffa, a partire dal nome. Tuttavia è frequentato da bella gente, e con bella intendo che è ben vestita, pettinata e sorridente. Bevono vino bianco al calice e spritz e fumano Marlboro light. L’altro è un baretto che fa angolo, piccolo e anonimo, preso d’assalto da chi non ha pretese o da chi cerca l’alternativa a una certa patina che in città ormai ricopre tutto. Qui la gente è meno bella, nel senso che non si sforza di apparire tale: si veste normale, un jeans e una maglietta, e fuma trinciato. Anche qui bevono vino bianco e spritz.
Penso che se fossi uno scrittore e scrivessi di ciò che sto vedendo, di questo cinema d’essai cantato da Brunori SAS e posto tra il locale fighetto e il locale straccione in un’animata e multietnica piazzetta di quartiere chiusa tra due vie ricche di ristoranti e botteghe e una linea di tramvia, risulterei artificioso, calcolato, misurato, quasi volessi ricreare una piccola isola narrativa felice, perfetta per un sequel de Il fantastico mondo di Amelie o una sitcom frizzante di amici borghesi alle prese con le difficoltà della vita. Ma è ciò che ho davanti, che faccio? Rifletto.
È la prima volta in cui per romanzare la realtà non dovrei aggiungere e imbellire, ma togliere e imbruttire. In fin dei conti, se un romanzo può crescere a partire dalla realtà, perché la realtà non può ridursi a essere finzionale come un romanzo? La sottile linea che separa romanzo e realtà non è netta e marcata, per quanto sottile possiamo immaginarla, ma una battigia in una giornata di mare mosso. Perciò noi lettori non dobbiamo essere così fiscali, così puntigliosi, così scassacazzi, quando uno scrittore scrive qualcosa di banale: a volte è la vita ad esserlo e magari lui si è limitato a prenderla per quello che è: un coacervo di stereotipi fatti carne e azione. Penso che se David, il figlio di Joseph Castleman, avesse visto questa piazzetta, avrebbe risposto così al padre, quando sente dirsi che il racconto che ha scritto è buono ma ricco di cliché. Ma David preferisce passeggiare nella fredda Stoccolma e manda giù il boccone amaro, oliato da un prevedibile, ma assolutamente vero, ammonimento: la scrittura è sofferenza.
Di che tipo? L’unico dolore fisico che penso possa causare la scrittura sono emorroidi e mal di schiena, ma non so di nessuno scrittore morto per questo. Al massimo per le conseguenze dei vizi di una vita sedentaria: sigarette, alcol, cibo spazzatura. Lo scrittore giapponese Haruki Murakami, per esempio, per contrastare queste conseguenze, ha deciso di correre. È passato, nel giro di pochi anni, dall’essere il gestore di un pub che fuma tre pacchetti di sigarette al giorno e beve un numero incalcolato di birre, all’essere uno scrittore di successo che corre le ultramaratone. Ha raccontato tutto questo nel breve saggio L’arte di correre, dove riassume il senso di sofferenza che si prova a correre e scrivere e spiega come, in fin dei conti, per lui, si tratti della stessa cosa.
E per me? Sono le undici di sera. Spengo la sigaretta e mi avvio verso casa. A letto, nel buio della stanza, penso a come il titolo The Wife suoni banale anche per un film porno, poi la banalità mi riporta alla mente il primo racconto che ho scritto. Non avevo otto-nove-dieci anni, a quell’età odiavo finanche i temi post vacanze assegnati dalle maestre. Ne avevo venti, ventidue, su per giù. Venivo da un periodo di buio totale (quello delle scuole superiori) e mi ero messo in testa di scrivere. Ho buttato giù una storia horror, qualcosa con gli zombie. Ero soddisfatto, convinto fosse un eccellente lavoro. Lo feci leggere all’interno di un club di scrittura e lettura di cui facevo parte. Oggi non ricordo più le esatte parole che furono dette, ma ricordo bene che tornato a casa mi sdraiai sul letto e mi misi a piangere, come se mi avessero offeso personalmente.
È stata questa la più grande sofferenza che la scrittura mi ha dato: imparare a scindere me stesso da ciò che scrivo, per quanto in ciò che scrivo possa esserci tanto di me stesso. Questo non vuol dire tagliare con l’accetta il ginepraio messo su da chi si interroga sulla legittimità di tenere uniti o separati autore e opera. Siamo un passo prima, alla recisione del cordone ombelicale, alla separazione dei gemelli siamesi. Siamo all’inizio della scrittura: là dove tu non sei, per dirla con Roland Barthes.
È una banalità, ma come tutte le banalità nasce da una necessità pratica che non può portarci ad agire diversamente, pena: una sofferenza atroce. Credo che Joan, la moglie di Joseph Castleman, l’avesse capito sin da giovane, mentre suo marito no. Joseph l’ha capito solo in punto di morte, e non escludo che le due cose siano collegate.
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