Eppure c’è stato un tempo in cui il mio corpo era attraente. Le mie curve simbolo di armonia e magnificenza. La mia carne, nutrita dagli eccessi, era voluttuosa e sensuale, era erotismo dell’abbondanza. Agguantarla, stringerla, pizzicarla, toccarla. Affondare le mani e sentire crescere sotto pelle la pulsione, pronta a liberare ogni freno morale, etico, pudico, rovesciando l’alto nel basso, l’uomo nella bestia.
Eppure c’è stato un tempo in cui il mio corpo era divinizzato. Le mie curve asciutte e aggraziate, rappresentavano un modello da replicare in serie, un abito d’alta sartoria cui tutti ambivano per sentirsi l’eccezione nella massa, l’uno nella moltitudine. La mia carne proiettava un’ombra così perfetta, da lasciare i più esposti al sole dell’invidia, nel tentativo di imitare il solo modello possibile, il mio.
Eppure c’è stato un tempo in cui il mio corpo era muto. Un’epidermide gialla, bianca o nera che fosse, puntellata di peli, unghie, capelli, ghiandole e niente più. Una campo vergine su cui tracciare segni nati codici poi divenuti gergo e infine arte. Una tela incapace di starsene appesa a un muro, ma proiettata nel mondo a comunicare attraverso simboli, ghirigori, astrazioni, fiori, animali o parole altrui.
Eppure c’è stato un tempo in cui il mio corpo era multiforme. Premeva per sguisciare in direzioni inaspettate, depistanti, alterando forme, linguaggi e colori condivisi, spingendomi a cercarne di nuovi e inesplorati. Un corpo incapace di armonizzarsi a simmetrie, schemi o dualità, le cui origini e ragioni si perdevano nel tempo, nello spazio e nella storia, e a noi ci toccava viverne i più intolleranti strascichi, così poco naturali, così tanto umani.
Eppure c’è stato un tempo il cui il mio corpo era immortale. Un corpo elastico, forte e solido, capace di metabolizzare senza conseguenze ogni tipo di esperienza e di sostanza, tramutandola in escrementi presto dimenticati, essiccati, evaporati. Tracce di una vita sedimentata da un processo formativo che si ricorda con disincanto e nostalgia, prendendo coscienza del mutamento, di un corpo debole, fiacco, macchiato, slabbrato, consumato, indurito, e presto morto, decomposto e infine svanito.
È stato il tempo in cui i nostri corpi erano solo corpi. Erano carne che ricopre muscoli e nervi ma che si attrae e si eccita negli altri e per gli altri, in un rito orgiastico universale privo di confini e regole, che si autoalimenta nella diversità e che trova nel particolare esclusivo il suo feticcio ossessivo, il suo essere unico, speciale, diverso, e dunque meritevole di amore, cura e protezione.
Quello è stato il tempo in cui ci consumavamo per poi rinascere creature mitologiche, con i nostri corpi anacronistici e sessualmente e biologicamente disformi.
Quello è stato il tempo del corpo. Del nostro corpo. Libero di essere carne e nient’altro che carne.
Poi è venuto il tempo dell’uomo, e con esso il tempo della parola. E i nostri corpi hanno smesso di essere carne, per diventare culto.
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