Quadrato n. 1 – Dal diario di Alvar Strandberg, operaio
Oggi abbiamo montato quella nuova installazione di merda per il museo: un quadrato di led bianchi in mezzo alla piazza.
Mentre sventravo la pavimentazione di porfido, col martello pneumatico che pompava nelle orecchie, mi immaginavo a trapanare il cervello di quello stronzo del curatore, un fighetto del cazzo che la metà basta.
Quadrato n. 2 – Dal catalogo della mostra The Square, a cura di Christian Lindberg
Nella parole di Roy Gruntag, The Square è un santuario di fiducia e amore al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri.
Come accade per molte delle grandi opere concettuali, la purezza geometrica di The Square e l’essenzialità sintattica della sua forma ideale aprono a un’inaudita ricchezza semantica.
L’opera si configura come un microcosmo ideale, un modello di spazio comunitario nel quale i conflitti sono appianati. The Square è una società armonica, in cui regna l’etica della fratellanza: «I trust people» è il suo primo comandamento.
Quadrato n. 3 – Dagli appunti dell’agenzia promozionale
Questa roba concettuale è invendibile, interessa solo alle élite. Se vogliamo l’attenzione dei media ci serve qualcosa di provocatorio, che si svincoli dal buonismo dell’opera. Direi di provare a buttare dentro al video promozionale un po’ tutto quello che attira i click, sperando che scatti l’effetto virale. Keywords: bambini, gattini, terrorismo. Bambini terroristi all’interno di The Square? I terroristi colpiscono anche nelle nostre piazze/squares? Il nostro quadrato non è più sicuro? Il volto oscuro dell’arte contemporanea featuring bambini biondi che esplodono senza ragione? Ecco, questa roba va sicuramente alla grande.
Quadrato n. 4 – Dai commenti al video promozionale su YouTube
dieanotherday: «Questa gente deve morire!1!!1!!!1!1!»
oldmommy: «Vergogonatevi, speculare in modo simile sulle tragedie!»
flapflap: «L’arte contemporanea è una merda, questi sarebbero capaci di venderti come pezzo da museo un preservativo usato!»
Justice93: «Vorrei vedervi a proporre questa roba in una delle nostre banlieues»
Quadrato n. 5 – Dalla recensione del film The Square
Ed ecco che, tramite l’escamotage del video promozionale, assistiamo al rovesciamento di significato dell’opera: il quadrato non più come modello di società ideale, ma come semplice spazio di confinamento. The Square perde la purezza di una forma/società ideale e si rivela come una semplice bolla, un muro di cinta che isola invece di unire nell’amore.
E dunque siamo questo, corpi rinchiusi in quadrati: quelli delle nostre auto, delle nostre case, dei nostri happenings esclusivi, della nostra Fortezza Europa. E questi muri di cinta sono sotto attacco: banlieusards che bussano ai nostri vetri, voci della coscienza che si insinuano al caldo dei nostri focolari, terroristi che violano i nostri spazi di sacralità. Il quadrato, insomma, come spazializzazione della minaccia.
Quadrato n. 6 – Dai quaderni di Bengt Ekerot, analista di Ruben Östlund (regista di The Square)
Qual è il suo livello di identificazione col curatore museale? Voglio dire, non è eccessivamente (auto)assolutorio farne un arrogante mosso da buone intenzioni? Non è direttamente responsabile del video exploitation, fa sesso in modo casuale ma non è un adescatore seriale, spinge un bambino giù per le scale ma poi si commuove… Non è che lei usa in questo caso un metro etico diverso rispetto a quello, implacabile, impiegato per il resto del mondo?
E quel video promozionale… lei è astuto, certo, e mette le mani avanti per porsi al riparo dalle potenziali critiche al suo stesso film… ma il video non è forse la sua cattiva coscienza di provocatore con niente da dire?
Non risponda, la prego, non è qui per parlarmi dei suoi problemi.
Quadrato n. 7 – Dal foglio word del vostro bocciofilo
Crudeltà e altruismo, senso dell’assurdo e moralismo. E quadrati dentro quadrati dentro quadrati, vite confinate ciascuna in un proprio spazio, un proprio ruolo, una propria maschera. Convincersi che su quella maschera sia possibile fondare un’etica e una società: bambine sicure di aver fiducia nel prossimo («I trust people»), ma che non vogliono rimanere sole in auto in un quartiere popolare.
Non ci rimane allora che il senso di colpa, e sorge il sospetto che sia l’unico elemento sul quale edificare una morale: se non puoi mettere a tacere le voci delle coscienza, prova a sfruttarle per fare del bene. Solo che, come ci ricorda crudelmente un personaggio del film, il senso di colpa non ci sarà di alcun aiuto. E allora ci ritroviamo soli, e il mondo si rivela un luogo più freddo e inospitale di ieri.
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