Quando andavamo al mare mia madre ci raccontava la storia del polpo.
È un fatto divertente che le era capitato prima di avere me e mia sorella, prima di sposarsi, prima di conoscere suo marito ovvero nostro padre. Durante una vacanza in barca con certi amici, evento già di per sé notevole dato che mia madre non ha mai imparato a nuotare, avevano ormeggiato in una caletta. Mentre gli altri facevano il bagno e lei stava lì a guardarli, con i piedi in acqua e le gambe che sporgevano dallo scafo, aveva sentito qualcosa toccarle la caviglia. Sarà un pesce, un’alga, aveva pensato. Poi la cosa le si era aggrappata a un piede e aveva iniziato a tirare. Dei pochi minuti seguenti ricordava: le urla (sue), le urla (degli altri), le braccia avvinghiate al parapetto nel tentativo di non farsi trascinare a fondo, gli occhi ciechi per il sale e gli schizzi e un tizio che la strattonava sventolando un remo. Quando finalmente erano riusciti a tirarla a bordo le avevano strappato di addosso un polpo lungo sì e no dieci centimetri. Una cosina tramortita, terrorizzata, parzialmente spappolata e già in stato di semi coscienza che avevano finito a ciabattate. Per un po’ c’era stata l’idea di mangiarlo, il polpo, ma alla fine nessuno ne aveva davvero voglia e l’avevano ributtato in mare. Questa è la storia del polpo.
All’interno del contesto marittimo, la storia del polpo veniva riservata a due momenti specifici. Il primo, quello goliardico. Le cene, l’intrattenimento degli ospiti, le file al bar. Una specie di barzelletta in assenza di barzelletta, dato che per impenetrabili questioni etiche le due tematiche fondative del genere, carabinieri ed ebrei, erano bandite dall’interazione familiare. Poi quello didattico, ovvero tentare, tramite una blanda politica del terrore, di inoculare al tempo stesso il rifiuto dell’acqua alta e il concetto che qualsiasi evenienza, anche apparentemente letale, si fosse verificata nel raggio di cinquanta metri dalla spiaggia, noi bambini eravamo invitati a sbrigarcela da soli. Venite qui da molto? La storia del polpo. Tonno e pomodoro, cotto e fontina? La storia del polpo. Se prendessimo il pedalò? La storia del polpo. Una volta ci eravamo allontanati su un gonfiabile, eravamo in quattro. Due ci stavano sopra, due lo tiravano al largo. Di punto in bianco uno dei piloti aveva cominciato a gridare e ad agitarsi, cercammo di capire cosa stesse succedendo ma non la piantava di urlare. La storia del polpo, pensammo noi. E invece no. Era una medusa, una di quelle piccolissime, quasi invisibili. A causa della cicatrice, che gli descriveva un arco dall’ombelico alla spalla, al mio amico fu vietato prendere il sole per tutta l’estate.
Anni dopo non sono più al mare e ripenso alla storia del polpo. Mentre porto in giro per soldi un cane non mio mi prende come una certezza, e l’epifania è che oltre l’aneddoto la storia del polpo sia forse e soprattutto lo spettro di una vita estranea, quella di mia madre quando non era mia madre. La visione di un prima impossibile di cui non esistono fotografie e non ci sono testimoni, di cui lei non parla mai e di cui non si è mai potuto chiedere. Suggeriva, la storia del polpo, che c’era stato un altro tempo, ma nessuno avrebbe potuto raccontarlo e soprattutto non lei. Qualcuno dovrà pur averlo abitato, quel tempo, ci saranno stati nomi, luoghi, abitudini, ricordi, ma erano tutti segreti. Fino al momento della sua nascita, ovvero quello della mia, non esistono prove che mia madre sia realmente esistita. Mia madre in barca, mentre con noi non entrava neanche nell’acqua bassa. Mia madre con persone che non siamo né io, né mia sorella, né mio padre. Mia madre in vacanza nelle isole greche, o forse alle Eolie, che osserva sconosciuti nuotare. Mia madre che non è mia madre ed esiste senza di me. La storia del polpo, penso, era un indizio che senza dirlo puntualizzava: ecco, prima di voi io c’ero.
Poi è arrivato l’incubo. Sogno, certe volte, di incontrare mia madre e domandarle della storia del polpo. Ti ricordi, mamma, della storia del polpo, le dico. Ma lei non si ricorda. Quale polpo, di cosa stai parlando, risponde, e io allora mi dispero, vado fuori di testa. Ma come è possibile che l’hai dimenticata, ce la raccontavi sempre. Al mare a Principina, poi l’estate a San Vincenzo e quella all’Elba. Anche in Sicilia, dai nonni. La storia del polpo, adesso ti torna in mente. Ma lei niente, mi guarda come se stessi sragionando, come se stessi inventando. Ma che sarà mai questa storia del polpo, e poi mi sveglio. L’incubo, qui, non consiste nel fatto che mia madre stia invecchiando, che le stia venendo l’Alzheimer o qualche forma più sofisticata di demenza senile. Consiste, l’incubo, nel fatto che mia madre abbia perso il suo prima impossibile, la sua vita altra nel tempo segreto, e ora non sia nient’altro che mia madre, nient’altro che lei.
Lo racconto a mia sorella, l’incubo della storia del polpo. Lo so che sono impulsi elettrici, spiego, ma pensa se si dimenticasse davvero, pensa se si dimenticasse la storia del polpo. Se quella storia svanisse, se svanisse dalla sua memoria, sarebbe la fine di quello che è stato quando noi non eravamo. Noi ce la ricorderemmo, è vero, ma non servirebbe a niente, perché come senza testimoni il suo prima è ingiustificabile nell’ora, senza una sua conferma anche la storia del polpo diventerebbe istantaneamente falsa, una barzelletta qualsiasi. Sono chiara? Forse no, ma sarebbe tremendo perderla, la storia del polpo.
La storia del polpo, ripete lei. Guardandomi, cerca una cosa distante. Non è che volevi dire la storia del riccio? Era divertente quella, la raccontava continuamente. Ti ricordi? Il riccio, dai. Ti ricordi?
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