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The Prisoner | Taumaturgia narrativa

25 Gennaio 2022 di Salvatore Cherchi

 

 

Ho sognato che per natale mia madre addobbava l’albero con delle palle a forma di virus. Nel presepe, i Re Magi avevano le sembianze di tre noti virologi, e il villaggio attorno alla stalla era deserto.

«Che fine hanno fatto tutti?» le ho chiesto.

«Sono in quarantena», mi ha risposto, dal divano del salotto, col viso puntato verso la TV.

Su Real Time andava in onda un nuovo format: Discussioni da incubo. Mi sono seduto a guardarlo. Un gruppo di persone, chiuso in una stanza, veniva costretto a parlare di temi quali contagi, regole, focolai e assembramenti. Era vietato concordare. L’obiettivo era solo prendere parte a un caotico esercizio di arte oratoria. Tutti avevano la propria opinione e una notizia dell’ultimo minuto poteva ribaltare un punto di vista espresso un attimo prima.

Appena sveglio, sono stato preso dall’angoscia. Desideravo rintanarmi nella finzione. Scoprire un racconto in grado di narrare i temi di oggi col potere escapista della fiction. Ma sembrava impossibile anche solo immaginarlo, un racconto così. Le parole di tutti gli scrittori e intellettuali erano impegnate a vivisezionare i meccanismi di una realtà sempre più complessa. Se c’è un complotto, ho pensato, è quello che ci obbliga a prendere parte a un esercizio collettivo di analisi testuale e dibattito. Forse aveva ragione Duccio di Boris, nel dire: «non leggo una mazza, e sto benissimo!».

Così ho provato a scriverlo io, questo racconto. Avrebbe avuto in esergo una citazione precisa: “l’abuso d’informazione dilata l’ignoranza con l’illusione di azzerarla”.

Credo sia di Carmelo Bene, almeno così dicono le pagine di aforismi che qualsiasi motore di ricerca restituisce quando la si inserisce. Dove e quando l’abbia detta, però, non è indicato. Nessuna pagina lo riporta. Si tratta dunque di una citazione-uroboro, capace di ingurgitare sé stessa, vittima dello stesso meccanismo che denuncia.

Il protagonista del racconto doveva essere una persona insoddisfatta e disillusa, preda di sentimenti tendenzialmente negativi – un mix di malessere sociale, diffidenza e vittimismo – in cerca di una rivalsa contro l’autorità attraverso atteggiamenti di perenne opposizione. Rintanandosi in una bolla di contro-informazione, al lume di una presunta ragione che tutelava il suo essere libero cittadino a lungo mantenuto nell’ignoranza per il tornaconto di oscuri e potenti burattinai, si illudeva di non essere preso in scacco e di agire da outsider. Ciò di cui non si accorgeva però, il protagonista, era come questa bolla mistificasse a tal punto la realtà, da renderlo vittima inconsapevole di quello stesso meccanismo che diceva di combattere.

Non ho mai concluso questo racconto:  mi sono bloccato  perché ho capito che nel mio piccolo, non ero troppo diverso da quel protagonista, e che è difficile dominare la razionalità su eventi, anche banali, che ci riguardano strettamente. Mi spiego.

Un giorno ho ricevuto un messaggio da P., persona con cui in passato ho avuto una breve relazione. Non ci sentivamo da molto tempo. Quando ho ricevuto il messaggio, stavo acquistando dei calici per una cena. La connessione tra l’azione che stavo compiendo e il messaggio è stato un fuori programma che mi ha preso in contropiede. Proprio P., infatti, mi aveva regalato un set di calici, che avevo archiviato e dimenticato in una scatola.

La sera, mentre bevevo da uno di quei calici regalati, una domanda sbocciò nel mio inconscio: perché, dopo tutto quel tempo, P. mi aveva scritto proprio il giorno in cui stavo acquistando dei calici? Coincidenza? Avevo difficoltà a crederlo. Ero certo che tra le due cose ci fosse un legame di tipo metafisico, qualcosa che trascendeva la casualità per abbracciare la sincronicità di due vite.

La mattina dopo ho ripreso le fila del racconto. Ero arrivato al punto in cui il protagonista, impossibilitato a una normale vita sociale per via della sua radicalizzazione informativa – che andava dalla fluorizzazione dell’acqua alla fantarcheologia –, decide di andare a vivere in campagna e darsi all’agricoltura biodinamica.

Il racconto era prossimo alla chiusura, ma il pensiero dei calici continuava un lavorio di erosione che assottigliava la distanza che avevo preso dal personaggio costruito, attraverso lo sblocco di ricordi personali rimossi. Come la volta che sognai la batteria della moto andare a fuoco, e la mattina dopo non riuscii ad accenderla, la moto, proprio perché la batteria era a terra. Coincidenza?

Più rileggevo il racconto, più trovavo affinità tra la diffidenza del protagonista e la mia; tra la sua necessità di dare un ordine e un senso agli eventi della vita, e la mia. Era come osservare il proprio volto farsi sempre più nitido davanti a uno specchio d’acqua che si placa dopo il lancio di un sasso.

Sono corso in cucina. Ho preso i calici, e li ho buttati a uno a uno in una busta di plastica. L’ho chiusa per bene e, con tutta forza l’ho schiantata contro il muro, una due tre volte, fino a farne cocci inutilizzabili.

Dopo sono tornato al PC e ho cestinato il file del racconto, pronto a scriverne uno nuovo. In esergo però, questa volta, volevo mettere una citazione di Caparezza, rintracciabile nella canzone Fai da tela, che dice: “la gente, tutti ce l’abbiamo con la gente, come se non ne fossimo parte, ci si estromette sempre. Sempre”.

 

 

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Postato in: La sindrome del personaggio secondario Tag: 1967, caparezza, carmelo bene, George Markstein, MGM-British Studios, number six, Patrick McGoohan, the prisoner, virus Fai un commento

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