di Giovanni Stengel
Sono alcuni mesi che non fumo grazie ad un libretto, molto famoso, e dal trucido titolo:
È facile smettere di fumare se sai come farlo, di Allen Carr.
Secondo l’autore, la trappola del fumo consiste in questo: all’inizio le sigarette fanno generalmente schifo a tutti. Carr, infatti, sostiene che molti fanciulli, cominciando a fare qualche tiro con gli amici e le amichette “per avere più carisma e sintomatico mistero”, si sentano comunque rassicurati, rispetto alla tragedia di morire di cancro, perché si dicono: “Tanto ‘sta roba fa cacare… posso smettere quando voglio, se mi va.”
Così, questi simpatici bambini, come sappiamo, finiscono mangiati vivi dalla dolce nicotina fra gentili gargarismi di catrame.
Certo, ci sarà comunque chi ha amato le sigarette fin dal primo istante, e so, per esperienza diretta, che ci sono anche altre strade, come boy-scout che iniziano perché affascinati dalla radica di una Savinelli. In ogni caso, credo fermamente che il buon Allen (morto nel 2006 per un tumore al polmone) sapesse quel che diceva. Basti pensare che, prima di diventare ricco vendendo oltre quindici milioni di copie del suo libretto e aprendo 70 centri specializzati in 30 paesi diversi, egli stesso fumò più di cento sigarette al giorno, dalla tenera età di sedici anni fino ai quarantanove: 100siga x 33anni x 365giorni; più di un milione e duecentomila sigarette. Un esperto.
Ora, cercando di arrivare al punto: ci sono certe cose nella vita altrettanto pericolose, che, però, funzionano nel modo contrario. Ci sono cose che ci attraggono così visceralmente, e fin da subito, che ne siamo turbati quasi al punto di provare per queste una paradossale repulsione. Un forte fastidio propedeutico alla fuga. Forse anche per un residuo ancestrale di istinto, grazie al quale, davanti a cose belle e coloratissime, come certi bruchi magici, salamandre gialle o funghi come l’Amanita muscaria (anche detta ovolo malefico), una voce nella testa ci dice: “No! Fermati!… non provarti a mangiare quella roba!”. Troppo eccitante per essere buona… però così bella.
È un sentimento strano, un’arma a doppio taglio che però qualche volta ti salva la vita.
Mi è successo di recente con un film.
Poco tempo fa, mentre stavo tranquillamente riguardando qualche fotogramma di “Professione: reporter”, con l’intenzione di scriverci sopra qualcosa, a un certo punto un sibilo inquietante cominciò a insinuarsi nella mia testa, a frullarmi fra le sopracciglia e la collottola…
Film del 1975, regia di Michelangelo Antonioni, titolo originale: The Passenger; attori protagonisti: Jack Nicholson e Maria Schneider. Una recensione “borghese” potrebbe essere qualcosa del genere, da leggersi con voce tipo Istituto LUCE: “Non il classico thriller. Una storia d’amore dentro una spirale di verità e mistero. […] Di una bellezza paralizzante, se riuscirete a non distogliere lo sguardo.”
…comunque, un attimo dopo quel sibilo nella mia testa si silenziò d’un tratto e poi: boato.
Fu come il suono del vento che spalanca la porta d’ingresso mentre sei seduto al tavolo di un rifugio, durante una tempesta. Ma quella volta, quel suono immaginato non risvegliò in me solo la spaventosa sensazione (comunque familiare) di aver perduto la rotta; fu, piuttosto, l’orrido sospetto di non averne mai avuta alcuna. Come trovarsi di colpo dentro un oceano sull’orlo di scatenarsi e che, fino a quel momento – finché dormivi tranquillo sulla zattera – era rimasto pacifico.
Credo di aver capito il perché solo dopo, almeno in parte.
Per spiegarmi, con tono più razionale, farei un confronto – mi si permetta l’oscenità – con altri due thriller: prendiamo, per esempio, Il delitto perfetto di Hitchcock e L’uomo nell’ombra di Polanski.
Questi due eccezionali film, molto diversi fra loro, lasciano incantati per il superbo meccanismo fatto di oggetti nascosti, personaggi misteriosi, passioni ed enigmatici paesaggi lunari.
Antonioni però, con The Passenger, costruisce qualcosa di assai meno definibile.
E qui sta il punto. Da una parte la percezione di poter definire quello che si osserva, di poterlo in qualche modo confinare dentro un mosaico di etichette ordinate nella nostra mente; dall’altra, invece, lo sguardo che non si esaurisce, il brancolare verso un orizzonte incerto e meraviglioso.
Nei primi due ci si perde, ma solo per gioco; mentre con Antonioni ci si perde davvero.
Se i tre film fossero dei meccanismi, Il delitto perfetto sarebbe un originalissimo e oliatissimo orologio svizzero a cucù, L’uomo nell’ombra un elegante Vacheron Costantin da polso.
The Passenger tutta un’altra cosa. Sarebbe il castello errante di Howl… o una specie di tesseratto… qualcosa che si sgretola e ricresce mentre procede.
Una strana forma di vita, un po’ medusa un po’ armadillo gigante. Un po’ bruco magico.
Difronte alle scene del film, quando lo smarrimento sopraggiunge, penso: “Ecco, questa roba sembra esattamente la vita… fa così paura perché è vera”. Speravo che almeno qui ci fosse una soluzione, una risposta netta. “Ma allora chi è veramente David Locke? E la ragazza?”.
Poi ci ripenso, cerco di capire cosa è successo, ci ritorno perché quello sguardo, che mi era sembrato di timore, forse era d’amore, oppure no. “Esiste davvero l’hotel de La Gloria?”.
Per fortuna dolci note di una melodia popolare catalana cullano tutti questi pensieri, inquieti e brulicanti, verso la sera che addormenta le onde… che ricalma l’oceano.
Forse tutto potrebbe ridursi a un momento in mezzo al film, nel piccolo paese di Sorbas, in provincia di Almería, arroccato sopra un compatto massiccio roccioso abitato fin dal neolitico.
Qui il tempo sembra immobile e le poche figure umane che compaiono sono come fantasmi.
Le superfici grezze, intonacate di diversi colori, arse dal sole e corrose dagli elementi: le “smorfie” dello spazio stesso contro Locke, vittima di un meccanismo che ha cercato con tutto se stesso di sabotare. Forse ce l’ha fatta. Forse è la vecchia storia di Samarcanda.
Spero di non essere stato chiaro.
Guardatevelo con calma, cercate di capire chi è l’assassino.
E ora smetto di scrivere altrimenti ricomincio a fumare.
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