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In fuga dalla bocciofila

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The Good Place | Essere al posto giusto

10 Maggio 2022 di Elisabetta Meccariello

 

 

Il primo giorno di scuola stringeva sulla pancia il sacchettino di stoffa con la merenda: una rosetta col prosciutto, tre fettine sottilissime. Il prosciutto lo vedevano in tavola una volta al mese, quando andava bene. La madre aveva insistito:
«Almeno il primo giorno, poi lo capiranno che è una pezzente, ma almeno il primo giorno!».
Mariella era felice per quel prosciutto. I fratelli le dissero che la odiavano e che si sarebbe strozzata mangiando il panino. Era la quarta di sei figli.
Chiuse i pugni forte, sentiva le unghie premere sulla carne, le mani gelide e sudate. Poi si mise a sedere e accarezzò il banco. Con l’indice seguì il perimetro del legno e arrossì pensando che era tutto per lei, che non avrebbe dovuto condividerlo con nessuno, che non le avrebbero tirato i capelli per rubarle il posto. Conosceva gli altri bambini della classe, figli di contadini come lei: nessuno di loro aveva una rosetta col prosciutto. Mariella nascose il sacchettino di stoffa in fondo alla cartella.
Quel giorno disegnò tante cornicette sul quaderno. Linee, punti, trattini, cerchietti. Mariella immaginava e le forme scorrevano nella testa e poi giù nel petto, nel braccio, nella mano, nelle dita e uscivano dalla penna. Le pagine si riempivano di colori e segni e patacche d’inchiostro. Arrivarono le lettere, arrivarono i numeri. E ancora le montagne, i fiumi, le città. Le pagine si riempivano di curiosità e sogni e tremori.
Mariella andava a scuola, poi tornava a casa, metteva il cesto di vimini in testa e spariva nel campo a governare gli animali. Quasi sempre, nascondeva il quaderno sotto al grembiule.
Il suo piccolo paese, improvvisamente, esplose. Di quel posto conosceva ogni sasso, ogni anfratto, ogni filo d’erba. Era il luogo dove aveva sempre vissuto. Dove aveva visto nascere un agnello, dove aveva visto sgozzare una gallina, dove aveva giocato a campana, scalza, con i cocci che le tagliavano i piedi, era il luogo dove aveva sentito il cuore battere più forte per una corsa o per uno sguardo. Le case diventavano piccole, adesso, gli uccelli minuscoli. Gli alberi si scioglievano e sparivano nella terra. C’era altro alla fine della strada.

Quando le chiesero cosa avrebbe voluto fare da grande, lei rispose:
«Studiare!»
«Studiare? Che stupida, non ti hanno detto che potrai andare a scuola fino alla quinta elementare? Poi basta, torni a casa, le bocche non si sfamano con i libri».
Quel giorno Mariella odiò le patate, le carote, i piselli, ogni specie di ortaggio, legume, verdura a foglia. Meli, peri, ciliegi, ogni albero da frutto. Odiò la quercia in mezzo al campo, anche se non le aveva fatto niente, la odiò solo per il fatto di essere lì. Odiò le galline, le pecore, le mucche, i conigli. I pulcini un po’ meno perché, come lei, avevano il destino segnato. Quel giorno Mariella corse con il respiro corto e le ginocchia sbucciate, tenne le braccia lunghe e tese lanciando sassi nel ruscello, si buttò a terra e nascose la faccia nel fieno e nell’erba alta. Quando tornò a casa la madre le disse che era sporca e che doveva lavarsi le mani.

Il fotografo entrò in classe e i bambini si alzarono in piedi come al cospetto di un’alta carica. Un fotografo non si era mai visto in paese.
«Ma tu che lavoro fai?»
«Il fotografo!»
«Ma le bocche non si sfamano con le fotografie!»
«Vendo le fotografie e con i soldi che guadagno compro il cibo».
I bambini sgranarono gli occhi, alcuni rimasero a fissarlo con un dito nell’orecchio.
Quando li dispose su una fila, si misero a ridere coprendo la bocca con le mani. Poi li chiamò, uno alla volta, e li fece sedere, la cartina fisica dell’Italia alle spalle. Un quaderno aperto sul banco. Una matita blu in mano. Al momento di scattare la foto chiese di dire “patata”. Mariella al suono di quella parola, ormai sua nemica, fece una faccia scura che si impresse sulla pellicola. Una faccia scura, da adulta, con gli occhi di bambina.
«Pagare per una fotografia? Dove andremo a finire!»
«Ma la comprano tutti, la voglio anch’io la mia foto».

Mariella ha imparato a leggere, a scrivere e a far di conto. Dopo la quinta elementare è tornata a lavorare in campagna. Ha continuato a mangiare frutta e verdura. Quando si è sposata si è trasferita in una grande città, piena di macchine e palazzi, con pochi alberi e molti cani. Ha lavorato in una sartoria fino a sessantaquattro anni. Ha avuto due figli che hanno mangiato una rosetta col prosciutto ciascuno il primo giorno di scuola. Ha spulciato i loro libri fino all’università. Ha cucinato torte e pranzi della domenica. Ha indossato scarpe col tacco. Ha detto ai nipoti che era felice di essere la loro nonna. Ha trascorso molte ore guardando fuori dalla finestra.
Qualche volta, dal cassetto del comodino, ha tirato fuori la fotografia con la faccia scura da adulta e gli occhi di bambina e ha immaginato la vita che qualcun altro aveva vissuto al suo posto.

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Postato in: Lo sfogone, Oceani di autoreferenzialità Tag: foto di classe, la scuola dell'obbligo, the good place Fai un commento

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