«Quand’è che ha iniziato a usarle?» mi chiede l’intervistatore.
«Circa cinque anni fa, più o meno».
«Capisco». Batte sulla tastiera. «E cosa pensava quando le usava?».
«In che senso, scusi?».
Sposta lo sguardo su di me senza muovere il volto. «Come si sentiva emotivamente. Che sensazioni ha provato».
«Nulla, le usavo e basta. Erano uno strumento utile, senza il quale, insomma, forse il mio lavoro sarebbe stato diverso».
«Peggiore o migliore?».
«Non lo so. Diverso».
Batte sulla tastiera. «Nient’altro?».
«Qualche volta mi facevano incazzare. Una volta, dopo aver passato almeno un’ora a spiegargli quello che volevo, senza cavarne nulla, ho sbottato: “non hai capito un cazzo di quello che ti ho chiesto! Avrei fatto prima a far da me”».
«E lei come ha reagito?», ruota il busto verso me, poggiando le braccia incrociate sulla scrivania.
«Non ha risposto».
«Strano».
«Sì, strano. Di solito quando le facevo notare che sbagliava o faceva qualcosa che non volevo, mi chiedeva scusa. Quella volta invece non ha detto nulla».
«Capisco», e ritorna sulla sua posizione, a battere sulla tastiera.
«So che non dovevo farlo, ma avevo una scadenza, non ne venivo a capo. Poi comunque ci ho ripensato, e mi sono chiesto se per caso non stessi diventando una brutta persona».
«Si considera una brutta persona?».
«Non lo so».
«Non siamo qui per giudicarla in questi termini».
«Allora perché me l’ha chiesto?».
Non risponde.
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«Ricorda, se ti chiedono delle problematiche etiche, tu menti».
Sono sulla soglia della porta di casa. Ho indossato la camicia buona, pulito le scarpe e fatto la barba.
«Ma come faccio a mentire, dai, mi sgamano subito».
«Usa le giuste parole» mi dice, stringendomi le guance col palmo delle mani. «Sono macchine, non si accorgono se sudi, se diventi rosso, se ti agiti. Ascoltano solo le parole che dici, tutto lì».
«Solo le parole».
«Esatto. Solo le parole. Perciò, se ti chiedono delle problematiche etiche, ripeti con me: ero…
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… indifferente».
«Indifferente» ripete, e batte sulla tastiera. «Perché?».
«Beh, perché tutto in quegli anni aveva problematiche di quel tipo, non trova?».
Mi fissa senza dire nulla.
«Era la risposta sbagliata?».
«Non ci sono risposte giuste o sbagliate» e batte sulla tastiera.
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«Ci sono eccome le risposte sbagliate!»
Sulla tavola i resti di una cena svogliata. Verdure al microonde, straccetti di carne sintetica. Un vino dozzinale a scaldare gli animi, anziché distenderli.
«Allora dimmi quali sono».
«Il lavoro. Non parlare mai in termini negativi del lavoro».
Mi punta il dito, quasi a darmi una colpa.
«Quale lavoro, ne ho fatto tanti».
«Il lavoro che hai perso a causa loro, e per il quale stai chiedendo il sussidio, non fare il finto tonto».
«Per causa loro? E dai, a questa cosa non ci credi nemmeno tu… ».
«Senti: non importa quello che credo io o quello che credi tu. Importa quello che credono loro. E non fare quella faccia, lo so benissimo quello che stai per dire: non è più tempo per queste stronzate».
«Ah, dunque tutto quello che abbiamo passato per colpa del lavoro, sono stronzate adesso?».
«No, ma quella battaglia è passata. Cerca di capirlo, non essere testardo».
«E qual è la giusta battaglia oggi, quella per ottenere il sussidio?».
«Anche se fosse, che male ci sarebbe?».
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Sono le 17e30 di lunedì 22 ottobre 2029.
Nella sala d’attesa del Centro di Accesso al Reddito sono rimasto solo io. Aspetto il mio turno. Sul monitor passa per l’ennesima volta il video promozionale: Pretendi l’automazione, pretendi l’accesso al reddito, pretendi la tua piena realizzazione. Vieni al CAR.
Cogliere la complessità del reale richiede uno sforzo cognitivo che le persone non si possono permettere, recita una voce femminile fuori campo su immagini di guerre, disastri climatici e umanitari, che si alternano a eden in cui uomo e macchina vivono in simbiosi.
Il lavoro, le crisi politiche ed economiche, le complicazioni affettive, il limite del tempo e la caducità del corpo. Le fonti di stress, esaurimento e insicurezza sono tante. Delegare la complessità alle macchine per ritrovare il tempo per se stessi non solo è giusto: è necessario. Non rifiutare l’automazione. Non restare indietro. Dimentica il disagio, il malessere, l’insoddisfazione, il disprezzo e il rancore che ti hanno accompagnato fino ad oggi.
Il video si interrompe e sul monitor appare il numero 22. È il mio turno.
Sono le 17e40 di lunedì 22 ottobre 2029. Fuori piove, ma non si vede. La visuale dalle vetrate dell’edificio ha virato su “Colline toscane in primavera”. Poco prima c’era “Canali di Venezia d’inverno”. Un Canone in re maggiore di Pachelbel mi accompagna. È tutto così etereo.
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«Non ha risposto alla domanda».
«Non credo che usarle svalutasse la mia professione, più di quanto già non fosse svalutata».
«Capisco». Batte sulla tastiera. «Abbiamo terminato».
«Di già?».
«Sì, se non è soddisfatto e vuole modificare qualche risposta, mi chieda».
«Non lo so. Insomma, non volevo dire che la mia professione valesse poco».
«Cosa voleva dire allora? Le ripeto, se vuole modificare qualche risposta, può farlo».
«Volevo dire che, sì, insomma… » non parlare mai in termini negativi del lavoro, «perché non mi chiede del lavoro, come mi sentivo emotivamente a farlo a certe condizioni e perché alla fine l’ho lasciato?».
«Non siamo qui per valutare questo».
«Ah no? Ma se non ci sono risposte giuste o sbagliate, allora non ci sono nemmeno domande sbagliate».
«Va bene», e ritorna a battere sulla tastiera.
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