Scordatevi controfigure alla Von Trier, scordatevi protesi genitali alla Kechiche. Nella quasi ultima scena del suo secondo film da regista, Gallo sceglie di prendere la questione di petto e di fare del porno vero, senza artifici o scappatoie. Sembra quasi ricalcare la regia dei porno da masturbazione, con tanto di stacchi sul viso gaudente dell’uomo e sulla nuca accompagnata e bionda della donna.
A rendere ancora più pornografica questa scena rispetto a un film di Mario Salieri c’è il fatto che i due protagonisti non stanno praticamente recitando, considerando che all’epoca erano fidanzati. Non hanno bisogno quindi di prendere confidenza con il corpo dell’altro, non scoprono per la prima volta sensazioni e reazioni reciproche, non si toccano e annusano per la prima volta. Il loro fare sesso parte da qualcosa per dimenticarlo durante l’atto, parte dall’amore per dimenticarlo.
Ci si perde in effetti nella loro intimità e si rischia davvero l’immedesimazione, la perdita totale di sé che è pornografia allo stato puro.
È più pornografico di Salieri perché c’è del sentimento, o la sua negazione – nel film la storia fra i due è finita male, non potranno mai più tornare insieme, le parole e le centinaia di discorsi fatti sono diventati così logori che solo la bestialità e l’istinto, il bisogno di avere e dare piacere, ciò che li unì all’inizio di questa vacua odissea è capace adesso di riavvicinarli.
E non si può rendere in maniera più esplicita, cioè più pornografica, la tragedia intrinseca all’amore di coppia: la sua esauribilità. Perfino il sesso è esauribile, le possibili combinazioni e posizioni di un corpo rispetto all’altro; perciò i due amanti del film, i due amanti della vita reale, finiscono per avere un rapporto orale univoco, piatto, senza fantasia, ancora una volta la meno ricercata e dialogata delle soluzioni.
Tutto è così anonimo e impersonale in questa scena di un paio di minuti, e c’è così poco autocompiacimento e così poca narrazione, che la tragedia che si dispiega chiara al minuto 89° (il trauma a monte del protagonista) appare quasi ridondante – la morte di lei, la sua morte avvenuta tempo prima in circostanze terribili, in seguito a uno stupro di gruppo e ad un abuso di droga, con tanto di causato aborto. Non era necessario infatti – se non a livello di plot, per giustificare l’estraniamento del protagonista – spiegare in maniera prosaica quello che già una scena come quella della fellatio aveva spiegato perfettamente. In quelle poche inquadrature scialbe, sfocate, il partner era già fantasma, immaginazione, pura ossessione mentale. C’era già la sua scomparsa perfettamente rappresentata.
Mentre nei film di Salieri tutto è calcolato perché provochi piacere, prima di tutto negli attori stessi – che in questo sono molto poco attori, quasi quanto non lo sono Gallo e la Sevigny – e poi nello spettatore, in The Brown Bunny il minimo dispiegamento di forze messo in campo non provoca né piacere né dispiacere.
(In quella motocicletta che si allontana nel deserto di sale fino a diventare miraggio e scomparire lo spettatore vede se stesso inabissarsi.)
Questo Vincent Gallo, molto simile al successivo Phoenix di The Master – stessa espressione di disagio perpetuo, perfino stessa narice a uncino e stesso occhio ceruleo da persona non particolarmente affidabile – ci dimostra quanta poca pornografia – nel senso di Salieri, nel senso comunque di intrattenimento – ci sia nella vita reale.
Se nel porno da internet è necessario mostrare lo sperma in grandi quantità, la sua esplosiva fuoriuscita, quindi la colata e il rimaneggiamento – dal bukkake al gokkun alla pearl necklace: sono infinite le soluzioni per valorizzare quello che è la prova dell’avvenuto orgasmo – in The Brown Bunny non se ne vede una sola goccia. Questa trovata di non mostrare il liquido seminale è forse la cosa più struggente dell’intero film.
Daisy chiude gli occhi, mugola, è lì lì per soffocare.
È come se la calda e argentea promessa – quello che in un porno giapponese fornirebbe la più preziosa prova dell’avvenuto godimento – venisse ingoiata davanti ai nostri occhi. Ma come in un miracolo vediamo quello che non c’è, sappiamo che è vero, la nostra fiducia è totale. La verità ci viene celata eppure si manifesta.
Niente, o quasi niente, lo renderebbe un film così nitido e senza sbavature – i doppi sensi sono chiaramente voluti – un film così potente e cristallino nel suo messaggio, se non fosse per questa breve scena da molti scambiata per mera provocazione.
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