di Lavinia Ferrone
Io non sono il mio corpo, sono il buio e la luce contemporaneamente. Io esisto e basta.
Cosa si vede, guardando da fuori, in una stanza con la luce accesa? Ombre.
La realtà sembra esistere al buio, perché è al buio che si vedono i contorni di tutte le cose, e a quanto pare la nostra mente è così limitata da riuscire a percepire qualcosa come esistente solamente identificandone il contorno, il perimetro ed infine l’orizzonte.
Al buio tutto questo si vede. Si vede la fine del profilo delle facce vanificato in una nuvola di fumo, quando la condensa, come se fosse l’anima, prende vita dalla bocca per poi morire annullandosi in un respiro troppo lungo. Si vedono le luci dei palazzi, così lontani che di giorno non ci pensi, ma quella finestra là, ora che la vedi accesa, sarà che è solo un puntino in alto mare, ma a quanto pare, c’è.
Al buio vedi le mani di David, se le porta alla fronte per soppesare i ricordi che lo hanno portato qui, come se fossero merce depositata tutta nella sua scatola cranica. I corridoi illuminati dai neon, i caffè delle macchinette e le palette di plastica buttate per terra. I fari delle macchine come spettri lenti. E poi le palpebre di tutti gli occhi chiusi.
Ma come mai solo al buio gli umani sembrano umani, così fuori contesto si ha la percezione che orbitino nell’universo, come i pianeti dentro l’iride. Perché il giorno, quando arriva, ci rende tutti uguali appiattendo le sagome e i profili, diventiamo tutti nudi e tutti simili. Appoggiati al ciglio della porta, seduti per terra o all’ombra degli alberi, siamo tutti talmente uguali che si ha la sensazione di sparire e, alla luce del giorno, non esistere più.
Ed il più grande silenzio, allora, pare raccontarci di sé in maniera logorroica ed estenuante, ma essendo silenzio, chi lo può sentire, si osserva solo vagare tra una stanza e l’altra, fumare in cortile. Non si vuole nessuno intorno a farci compagnia ogni giorno, perché ognuna di queste compagnie è una solitudine, e la mia solitudine in mezzo alle altre, è ancora e ancora la più grande solitudine che c’è al mondo.
Dove siamo qui, ancora non lo sappiamo, è un posto dove si arriva e dal quale ce ne andiamo per poi ritornarci contro voglia, che non è casa e non lo sembra neanche, ma la fa ricordare. Questo è il posto dove si aspetta in silenzio facendo finta di parlare e dove tutto il giorno si aspetta la notte perché vuol dire che tra poco arriverà anche il giorno dopo. È l’unico posto dove guardando gli altri controluce si vede ripetersi l’ombra di se stessi che si sdoppia, si triplica e quadruplica sul muro, ripetuta poi decine e decine di volte. Qui è il niente.
Viene da chiedersi allora, tutto questo essere, questo stare, che cosa sia. Se è quello che si vede al buio o che si sente stridere nel silenzio, la solitudine o la pace della solitudine. Ma che cos’è l’esistenza se non l’attesa. È lo stare. È quello che si incastra tra una pioggia artificiale e i finestrini aperti al sole. Tutto quello che si incastra tra due profili che si avvicinano senza incontrarsi mai, come il limite del cuore che tende a infinito pur rimanendo così piccolo. Che cos’è. Una partita a carte o dieci, cento, sigarette spente sotto al piede. Ma come è lunga questa attesa. La mia è la più lunga di tutte.
Ma l’esistenza che cos’è, se non tutto quello che si incastra. Tra le chiavi e la porta di casa, tra la speranza e il giorno dopo. Tra il sonno e la veglia.
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