C’è una cosa che accomuna quasi tutti i film di Danny Boyle. Si potrebbe riassumere in una frase e finirla lì, oppure arrivarci dopo una serie di scatti in avanti, finte partenze, cambiamenti di percorso, inchiodate secche e giri su se stessi, come farebbe lui.
È quella che ti fa scappare da una fetida stanza d’albergo con una valigia gonfia di sterline, abbandonando senza rimpianti quei tizi pietosi che fino a poche ore prima erano i tuoi amici. Quella che te li fa anche ammazzare, gli amici, pur di prenderti la valigia, o che i soldi te li fa bruciare lungo i binari di un treno. Quella che, appena uscito dal coma, ti convince a percorrere mezza Inghilterra per sopravvivere a un’epidemia di rabbia che ha trasformato buona parte della popolazione in bestie sanguinarie. Che ti fa decidere di tagliarti via un braccio con un coltellino molto, molto piccolo, senza perdere la freddezza necessaria per cercare di non morire dissanguato.
È quella che ti fa sequestrare un’ereditiera bella, ricca e stronza per poterti permettere una vita decente, e quella che, se sei un’ereditiera bella, ricca e stronza, ti fa prendere in mano la faccenda e cavalcare l’onda, rapinando anche una banca, tanto per divertimento. Che ti fa approdare su un’isola di fricchettoni e te la fa abbandonare in tutta fretta una volta che ti sei reso conto di essere approdato su un’isola di fricchettoni. Che ti fa imbarcare su un’astronave lanciata verso un Sole morente che deve essere riacceso. Che ti porta da fogne a cielo aperto a lindi studi televisivi, dribblando fanatici religiosi armati fino ai denti, la malavita e poliziotti muniti di elettrodi.
Si potrebbe chiamare in molte modi, questa cosa. Si potrebbe anche definire un’irragionevole voglia di esistere, quel desiderio animalesco di rimanere vivi, di cercare di passare nel modo migliore i giorni che ci rimangono su questo pallido pianeta, o di farli passare agli altri. Che è consolante, esaltante quasi, se si pensa a quanto velocemente milioni di avvenimenti dagli spessori più vari ce la facciano passare, questa voglia, in ogni momento. E anche se siamo gli ultimi sopravvissuti in dio sa quanti chilometri allora danziamo. Una danza di vittoria, con una coreografia pacchiana. O corriamo, ridiamo, in fondo va tutto bene.
Questa cosa, ci spiega Boyle, è anche quella che, nonostante tu sia stato dato in adozione appena nato e tirato su da un meccanico e una contabile di confessione luterana, ti fa diventare il fondatore di Apple, oltre che uno degli uomini più ricchi, temuti, e idealizzati al mondo. Che ti fa sopravvivere alle pressioni del potere, che ti dà la capacità sovrumana di fare i conti con tutte le questioni in sospeso della tua vita dieci minuti prima di andare in pasto a una folla famelica. Ma forse non è del tutto vero, e questa volta, Danny, ci stai prendendo – io credo – un po’ in giro.
Perché qui non si parla di vita o di morte, ma di qualche milione in più o in meno. Si parla di doversi prendere il disturbo di licenziare decine e decine di operai, segretarie, impiegati e tecnici, mentre si rimane a guardare il valore di una montagna di azioni che oscilla paurosamente. Si parla di capitani d’industria, così lontani dall’uomo comune come nemmeno un astronauta saprebbe essere, e delle sorti di quella scatola magica che, a differenza di quanto profetizzato da Arthur C. Clarke, l’autore del romanzo da cui è stato tratto 2001: Odissea nello spazio, alla fine non ci ha portati ad abbandonare le città, gli uffici e le strade ad alto scorrimento per andare a vivere in campagna.
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