di Leonardo Biancanelli
C’era una strettoia con un bar – una drogheria-alimentari l’avrei chiamata – sulla strada che dal bosco portava alle prime case della città. Uscii da quel bosco con una discreta sete per via della canicola – ci saranno stati una trentina di gradi – e la forma a imbuto della strettoia faceva sì che si dovesse, quasi inevitabilmente, entrare in quella drogheria-alimentari-bar; così ci entrai avendo ben chiaro che l’unico mio bisogno era riempire la borraccia con dell’acqua fresca, e niente di più. Non volevo fermarmi a mangiare, sia perché non avevo molti soldi, sia perché avrebbe significato cedere a una tentazione.
Appena dentro mi avvicinai al bancone e salutai, dissi buongiorno, mi pare, e domandai dell’acqua. Il barista mi disse che non poteva darmela. Che avrei dovuto almeno prendere qualcosa. Avrei davvero dovuto prendere qualcosa? Dissi che in realtà non avevo bisogno di niente, che mi serviva soltanto dell’acqua – acqua del rubinetto, ovviamente. Ah, se tutti mi chiedessero di riempirgli le borracce, disse. Un tizio accanto a me con una birra e un panino ripieno di melanzane, finocchiona e una salsa rossiccia mi chiese dove stessi andando, e poi aggiunse sorridendo che l’acqua fa male perché fa venire la ruggine. Era appoggiato al bancone in un modo che lasciava intendere – per lo meno così intesi io la faccenda – che quel suo gesto fosse rituale. Allora mi venne il dubbio che la questione stesse tutta lì. In fin dei conti io avevo il terrore di appollaiarmi al bancone, di cercare un rituale che non fosse altro che l’espressione di un equilibrio difficilmente raggiunto nel grande acquitrino di compromessi in cui spesso si impantanano gli adulti; e a quella gente non andava bene, quasi avessi una bella faccia tosta o qualcosa di simile. Invece avevo soltanto bisogno di acqua.
Pensai di girare i tacchi ma avevo troppa sete e mi decisi a prendere qualcosa. Ordinai un tramezzino al tonno con insalata e una coca-cola ghiacciata, e andai a sedermi a un piccolo tavolo rotondo con una sedia soltanto. Cedetti: avevo abbandonato la strada per il tavolino rotondo al bar. Avrei dovuto pagare il tramezzino e la coca-cola e trovare il denaro per pagarli, cosa non facile; avrei dovuto lasciare la via, l’estate, e la ricerca del sogno che stava in fondo alla strada. Il signore del panino alle melanzane si girò a guardarmi. Il barista continuò a pulire i bicchieri con uno strofinaccio bianco e a sistemarli sullo scaffale sopra la macchina del caffè.
Ripensandoci non avevo risposto al signore col panino che mi aveva domandato quale fosse la mia meta, ma capii che non gli interessava affatto la risposta; e che “perché invece di star seduto a mangiare, bere e riposare come tutti gli uomini, te ne vai in giro di qua e di là?” sarebbe dovuto essere, invece, il vero interrogativo. E forse avrei dovuto rispondergli che lo facevo perché mi rendeva felice, niente di più niente di meno, ma mi limitai ad alzarmi, a pagare la consumazione e a uscire, con la borraccia a quel punto piena, ma con l’amaro in bocca di quel tramezzino e di quella coca-cola costati così cari.
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