di Giulia Sabella
Quando dicevo a mia madre che non volevo scendere a Marino per le vacanze invernali, lei mi guardava con disgusto e sussurrava sempre la solita frase: «Questo potrebbe essere l’ultimo Natale con nonno». A quel punto non potevo fare altro che andare in camera, infilare le mie cose in valigia e avvertire gli amici che ci saremmo rivisti a Capodanno. Nessuno mi aveva mai chiesto perché non amassi passare le feste in famiglia: tutti davano per scontato che non fosse proprio allettante l’idea di stare una settimana con gli otto fratelli di mio padre, le loro rispettive mogli e i miei 13 cugini, ammassati nella colonica dei nonni, spersi tra i castelli romani, costretti a vagare per il giardino con il cellulare in mano nel disperato tentativo di vedere aumentare le tacche della linea, come in un film dell’orrore. Ma il motivo non era questo. La colpa era di zia Donata. Io ero follemente innamorata di zia Donata. Lei era così colta, raffinata, gentile e bella che mi chiedevo come avesse fatto a mettersi con zio Aureliano, il più giovane dei fratelli di papà, un uomo che allietava la fine di ogni portata ruttando la frase «complimenti alla cuoca».
Il mio primo orgasmo l’ho avuto pensando a zia Donata e quindi è sempre stato molto imbarazzante doverla incrociare in quella settimana di convivenza forzata, tra persone che bussavano alla porta del bagno reclamando il loro turno e le notti passate a dormire in salotto su un materasso buttato per terra, nella stessa stanza con mio fratello Lucio e qualche cugino affetto da meteorismo. A sedici anni ebbi il timore che zia Donata avesse scoperto il mio segreto. Una mattina, a colazione, notai il suo sguardo che si posava su di me. Mi alzai con una scusa e corsi in bagno terrorizzata. Aveva capito che l’amavo? Dopo poco bussò alla porta. La feci entrare, con il cuore che batteva a mille. Lei mi strinse la faccia con le sue mani. «Questa cosa non va bene» disse. «Lo so» risposi con le lacrime agli occhi. Lei mi baciò sulla fronte. «Fumare fa malissimo – continuò – ma se proprio devi farlo, almeno non lasciare le cicche nei sottovasi della limonaia, che qualcuno si potrebbe insospettire». Uscì facendomi l’occhiolino e io aspettai che chiudesse la porta prima di sedermi a terra a piangere abbracciata al water.
Passarono gli anni e alla fine nonno Vittorio, ormai novantaseienne, se ne andò lasciandoci sospesi in un paradosso spazio-temporale: morì la notte del 23 dicembre e sarebbe stato seppellito il 26, quindi quello che ci attendeva sarebbe stato a tutti gli effetti l’ultimo Natale con lui, nonostante fosse morto. Nonna aveva chiesto e ottenuto che la bara venisse preparata nella loro stanza, ai piedi del letto nel quale continuò a dormire beata nonostante la presenza della salma, tenendo fede ai voti nuziali pronunciati più di settant’anni prima: in salute, in malattia e anche qualcosa in più.
E così, anche quel 24 dicembre, entrai in casa e ritrovai i parenti che vedevo ogni anno, solo che questa volta i maglioni colorati avevano lasciato spazio al nero dei vestiti, e invece delle musiche natalizie di zia Franca le stanze erano percorse da sussurri e singhiozzi trattenuti. Io mi sentivo fuori luogo: per quanto volessi bene al nonno, mi era difficile provare un vero dolore, forse perché avevo vissuto ogni Natale precedente come se fosse l’ultimo e quindi il mio lutto era stato già elaborato. Quando ne ebbi abbastanza scesi in cortile e mi accesi una sigaretta: ero abbastanza grande da non dovermi nascondere più. mi raggiunse mio cugino Gregorio e insieme parlammo del nonno, della colonica, di che cosa avrebbe fatto adesso nonna, chi si sarebbe preso cura di lei. «Donata e Aureliano stanno qui vicino, immagino che all’inizio ci penseranno loro» dissi. Gregorio ridacchiò. «Non l’hai saputo? Donata l’ha lasciato. L’ha mollato per un collega, un professore di educazione fisica. È proprio scappata di casa. Aureliano non si alza dal letto da una settimana». Rimasi in silenzio e realizzai che quello non solo sarebbe stato il primo Natale senza nonno, ma anche il primo senza zia Donata. Quel giorno e anche quello successivo nessuno parlò di lei. Festeggiammo il Natale, scartammo i regali, mangiammo e bevemmo fino allo sfinimento ricordando nonno Vittorio che stava dentro la bara nella stanza accanto. A metà del pranzo ero già ubriaca.
Uscii a fumare in giardino e scoppiai in lacrime. Ripensai a zia Donata, alla sua risata che risuonava per le stanze, a quando la vedevo sgattaiolare via dal bagno avvolta nel suo accappatoio rosa, al modo in cui impugnava il coltello quando tagliava l’abbacchio, a come si mordeva le unghie seduta in poltrona a guardare il cellulare, pensando di non essere osservata. E io invece sì che la osservavo e però non l’avrei mai più rivista.
Singhiozzavo e non riuscivo a fermarmi quando arrivò zio Carlo con il suo sigaro. Mi abbracciò come non aveva mai fatto prima. «Forza bambina. È difficile ma nonno sarebbe stato contento di sapere che abbiamo passato questo Natale tutti insieme».
Il giorno dopo al funerale non vidi zia Donata ma sentii dire che era entrata in chiesa quando la messa era già iniziata e se n’era andata prima che fosse finita. Da allora qualche volta ci siamo scritte ma non l’ho più vista. “Buon Natale e un grande abbraccio dalla tua ex zia”, mi ha scritto nell’ultimo sms che mi ha mandato.
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