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In fuga dalla bocciofila

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Siccità | Sindrome della veduta d’insieme

18 Ottobre 2022 di Salvatore Cherchi

 

 

Lo accusavano di avere il sangue addormentato. Era un modo creativo per dirgli di essere mandrone, cioè uno che ha poca voglia di fare, perché passava le giornate dal letto al divano, dal divano alla tavola, e poi di nuovo al divano, prima di tornare a letto. Eppure lo sapevano tutti che in casa sua non erano tipi attivi. Al massimo una camminata verso il supermercato dietro l’angolo, ma attività come escursioni nei boschi, allegre biciclettate o nuotate al mare, non si erano mai fatte. Anche ora che il mare si era alzato e ce l’avevano davanti alla finestra. Perché dargli del mandrone allora? No. Era piuttosto un modo creativo per dirgli che non aveva voglia di lavorare. Dalle sue parti la fatica era sinonimo di mestiere, e anche se i tempi mutavano, alcune idee mantenevano radici salde.

Suo padre, ad esempio, faceva il camionista: trasportava acqua. Ogni giorno percorreva lo stesso tragitto, avanti e indietro, scortato da una guardia armata. Non c’era niente di romantico in quella professione, e per quanto lui volesse seguirne le orme, gli fu intimato di cercarsi una strada più gratificante e meno rischiosa. Anche se lo terrorizzava l’idea di essere assalito come un tempo si assalivano i portavalori, il pensiero di poter guidare tutto il giorno, lontano da casa e senza pensieri, esercitava su di lui un certo fascino. Si accontentava di poco. Non sognava di fare l’ingegnere, l’architetto, il paleontologo, lo scienziato, il medico o chissà che altro di nobile, benché se lo aspettassero, o lo sperassero, visto che da bambino diceva di voler diventare un astronauta. Ma chissà se poi lo desiderava davvero. O se era solo un desiderio figlio dei tempi, visto che avevano trovato l’acqua su Marte e non si parlava che di questo. Si diceva che l’esplorazione spaziale sarebbe stata la nuova rotta per Eldorado, e servivano uomini e donne pronti a tracciarla.

In realtà, le sue aspettative erano molto più terra terra. Tutto ciò che voleva fare era a misura del mondo in cui era cresciuto. Gli sarebbe piaciuto fare il camionista, appunto. Ma anche il giardiniere, o il libraio. Lavori tranquilli. Gente con cui parlarne. Di astronauti con chi ne avrebbe parlato? Non sapeva nemmeno come si diventasse astronauta. In ogni caso oggi era necessario pensare in grande per non affogare nello stagno in cui si era nati. Faticare da mattina a sera e da sera a mattina. Farsi furbi. Questo contava. E a lui non interessava. Rifiutava la nobiltà della sofferenza o l’etica della scaltrezza. Rifiutava quel tipo di approccio, benché raccontato come necessario, inevitabile. Anche se ormai si era prossimi a un collasso gravitazionale, che li avrebbe trasformati in pulviscolo nel volgere di pochi anni. Che senso aveva continuare a faticare, o a fottersi per un bicchiere d’acqua? Il suo sangue addormentato non era sintomo di pigrizia. Perché non lo vedevano? Perché non lo capivano?

Un giorno ricevette una lettera dalla World Space Agency. Il suo profilo era in linea per formare i futuri Coloni Comuni di Marte. Un gruppo di gente normale, senza arte né parte, spedita lì per capire, ad esempio, quanto influiranno, sulla loro stabilità mentale, le distese rosse di nulla che vedranno dagli oblò. Come gestiranno un attacco di panico, di depressione o di rabbia, sulla superficie di un pianeta disabitato? Percepiranno il tepore di casa tra luci al neon e le pareti metalliche dei  moduli in cui vivranno? Dopo quanto si abitueranno al cibo liofilizzato e alle verdure coltivate col loro stesso sterco?

Era l’occasione di dimostrare il valore del suo sangue, non poteva rifiutare.

Ma quando l’aeronave della WSA uscì dall’atmosfera terrestre e si lasciò alle spalle anche l’orbita lunare, fu pervaso da una inaspettata melanconia. Osservando quella sfera azzurra che chiamiamo Terra farsi via via sempre più piccola, provò qualcosa che credeva perduto, invece erano solo sopito, coperto da uno spesso strato di rassegnazione.

Più l’aeronave penetrava nel nero più nero che avesse mai visto, più capiva che la superficie di Marte non avrebbe riscattato la sua condizione.

Quel viaggio doveva essere il primo passo di una rinascita, invece era solo il primo passo di una fuga dalle soffocanti aspettative di un mondo schizofrenico, dove tutto si gioca nell’orizzonte di una costante crisi, da cui emergere come eccellenza o scomparire nella massa dei tentativi falliti.

Sperava che andando lassù sarebbe successo qualcosa di diverso da ciò che finora era successo laggiù. Ma ora sapeva che non sarebbe stato così, che quel tenue puntino azzurro dove tutta era iniziato non se lo sarebbe scrollato di dosso semplicemente andando via.

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Postato in: La sindrome del personaggio secondario Tag: lavoro, mandrone, marte, paolo virzì, Siccità Fai un commento

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