È una splendida serata di fine inverno. Sfreccio in bicicletta senza che le dita, prive di guanti, si congelino a contatto con l’aria, e per celebrare l’evento decido di andare al cinema a vedermi una cosa qualsiasi. In un multisala del centro danno il film dei The Pills, a dire il vero non avrei mai pensato di pagare un biglietto per guardarlo, ma tant’è. Anzi, ho talmente voglia di piazzarmi di fronte a uno schermo che ci vado da sola, a un ultimo, disertatissimo spettacolo serale. Compro un bicchiere di pop corn da un tizio simpatico al bar, faccio il mio ingresso trionfale nella sala prevedibilmente vuota e mi siedo proprio al centro, ignorando con gioia l’obbligo di occupare il posto assegnato, stampato a caratteri giganteschi sul biglietto.
Un attimo prima che si spengano le luci entra un altro spettatore. Dato che mi piaceva immaginare la sala come una propaggine del salotto di casa, la cosa mi indispone leggermente.
Ma tutto sommato non importa, penso. In fondo, c’è un sacco di spazio.
Noncurante di ciò, lui – o lei, non si capisce – si piazza esattamente accanto a me, con la sua tuta in acetato argento e i pantaloni infilati nei calzini. Porta un berretto da taglialegna che gli copre gli occhi e un marsupio, dettaglio che, forse in un accesso di pregiudizi da occidente dorato, mi preoccupa e indigna allo stesso tempo. Il film comincia e finisce in un battibaleno. Per l’intera durata cerco di fissare lo schermo e fingere che il mio poco desiderato compare non esista. Sbirciandolo con la coda dell’occhio, ho costantemente la sensazione che mi stia fissando.
Nel momento esatto in cui la sala si illumina salto in piedi e inizio a camminare verso l’uscita. Il tizio – o la tizia, davvero tra tuta e berretto è impossibile indovinare – mi segue a ruota, e non riesco a staccarlo. Se aumento l’andatura l’aumenta anche lui, mantenendo tra noi una distanza fissa di circa tre passi. Mi fermo, si ferma. Non mi volto. Riparto. La cassiera se n’è già andata da un pezzo, la hall è vuota, il bandone aspetta di essere abbassato. Un attimo prima di arrivare alle doppie porte a vetri mi fermo di nuovo. Questa volta mi giro di scatto, per trovarmi faccia a faccia con una persona dalle sopracciglia chiarissime, quasi invisibili, di età e sesso indefinibili. In faccia ha un’espressione stranamente cordiale, che non lascia trasparire la minima traccia d’imbarazzo.
Ti è piaciuto il film? – mi chiede, e sorride. Prima di riuscire a riflettere su come avrebbe più senso reagire, sto già balbettando che tutto sommato era anche divertente, magari non indimenticabile, e loro, i ragazzi, sono pure simpatici. L’unica cosa strana è che non ho riso. Mai.
Perché c’eri tu – vorrei aggiungere, ma non ho il fegato di farlo.
È buffa questa cosa che loro se ne stanno intorno a un tavolo, molto impegnati a non fare assolutamente nulla delle loro esistenze terrene, fumando e bevendo caffè, cercando di non crescere neanche per sbaglio. La resistenza attiva alla vita, i bengalesi paladini del lavoro, l’occupazione del liceo a trent’anni, i genitori che dopo la famosa vita di sacrifici vogliono andare a Berlino, il citazionismo a pioggia. Sicuramente non il capolavoro del secolo, ma nemmeno una risata, com’è possibile? E come mai per tutto il tempo ho avuto come una specie di capogiro, un senso di nausea impossibile da ignorare?
L’ansia mi guarda, sempre sorridendo.
Non lo so, dimmelo tu – mi fa. Poi se ne va lasciandomi lì, imbambolata nel cinema deserto, la notte che avanza.
Domani sarà un altro giorno, identico a ieri.
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