di Veronica Galletta
In principio era un albero, dal grosso tronco e dal fogliame limitato. Un albero serve a tante cose: si può aspettare cadano i frutti, per elaborare teorie sulla gravità; ci si possono costruire case sospese per andarci ad abitare; si possono appendere amache, e a volte anche uomini. Io e P su quell’albero invece in estate salivamo a guardare i film, superando così il muro dell’arena estiva, e i soldi per che non avevamo per pagare un biglietto. In principio era un albero, e non ricordo altro, né il paese, né la regione, nessuna strada e nessuna casa attorno. Solo, un muro di cinta, un albero, un’estate e noi due sul ramo.
Non ricordo gli altri film che ho visto da lassù, solo Rosso sangue, in una brutta traduzione di mauvais. Cattivo. Sangue cattivo sarebbe stato più appropriato, per un titolo che rimanda a Rimbaud e Una stagione all’inferno, ma queste cose le conosco solo adesso, che tutte le tessere sono tornate al loro posto. Il ricordo di quel film visto già cominciato, senza ricordare null’altro, non un attore, non un regista, mi ha inseguito nel tempo. Perché dopo quell’estate io quell’albero e quel sangue cattivo non li ho visti più. Un virus che colpisce chi fa l’amore senza l’amore, solo questo ricordavo, e per anni mi sono chiesta se esistesse veramente, o fosse solo un’impressione, la rielaborazione lirica e per immagini, frammentata, visionaria, dell’estate dell’adolescenza. Io e P su un albero.
(A noi non succederà. No. A noi no)
Invece poi l’ho ritrovato, il Sangue cattivo, vorrei dire insieme, adesso. Vorrei raccontarlo così, in una ricostruzione degli eventi che attribuisce alle coincidenze un valore divinatorio, e deforma le incongruenze, incolla gli anacronismi, lima le dissonanze, una ricostruzione dove far passare solo quello che serve, il fotogramma che rende il nostro vissuto mitico, importante, non buttato via in questo muoversi a caso che mi pare la vita. E si presta, Rosso sangue, a tutta la mitizzazione divinatoria che desideriamo. Ha tutto. C’è il virus, lo sconvolgimento climatico, l’amore perduto.
C’è P, il mio sangue cattivo, che ho ritrovato dopo vent’anni dal film, vent’anni fa, qualche anno dopo quel luglio, e quel cartello in cui sono incappata senza capire, nella domenica mattina dello stupore. Don’t clean this blood diceva il cartello, Non pulite questo sangue, e del cartello abbiamo parlato, insieme a tutto il resto. È stato P a rintracciarmi, proprio grazie a quel sangue non da pulire, a una mia foto di quei giorni che gli era capitata fra le mani, così ho rivisto il ragazzo di Rosso sangue non più ragazzo, incapace oramai di correre come Alex su Modern love, fermato da un male al cuore. Non più moderno il nostro amore, ma antico, archiviato, seppellito. Solo, tenuto insieme da una striscia di sangue, dalla guancia di Anna nella scena finale del film, alla scuola Diaz di tanti anni dopo.
(A noi invece è successo, sì. E succede ancora)
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