di Roberto Camurri
Avevamo una capra, mio padre aveva pensato che mi avrebbe fatto piacere, che mi ci sarei affezionato, che avrebbe potuto diventare un nuovo animale domestico, scambiare affetto e coccole come già facevamo coi cani. Credo scaricasse su di me il desiderio di averne una, una cosa tutta sua che giustificava indicandomi e dicendo: è per te. Mi piaceva, però, averla lì, sentire i belati, vederla interagire coi cani che le scodinzolavano attorno, gli agguati e le cariche che finivano con testate ai fianchi e i guaiti dei cani che si rintanavano con la coda tra le gambe.
Un pomeriggio, mio padre aveva iniziato a chiamarmi a gran voce. Io fuori di casa scalzo, i sassi dell’aia sotto i piedi nudi, i belati rompevano il silenzio del cortile e lei sdraiata al centro del serraglio in cui dormiva, la pancia che pulsava. Era la prima volta che assistevo a un parto, le zampe e poi la testa dei capretti che sbucavano, mio padre che le afferrava e le tirava, uno e poi l’altro, sono due, mi spiegava mentre osservavo stupefatto e sorridente come davanti a un miracolo, la placenta che si sfaldava e macchiava, sono due perché ne può allattare solo due, vedi, uno per mammella, la natura è così, mi diceva, è tutto pensato, calcolato, e io guardavo e stavo in silenzio, nessuna parola che potesse aggiungere qualcosa a quello che stavo guardando, la meraviglia, l’indifferenza sul muso che osservava attorno a lei tutta quella agitazione che non le apparteneva, lo schifo, anche, che imbrattava il cemento.
Eccoli, diceva mio padre mentre quei capretti tentavano già di sollevarsi sulle zampe, mentre lei li accarezzava col muso, mentre i belati diventavano tre e, improvvise, inaspettate, sbucavano ancora zampe, un terzo cucciolo pronto a nascere. Sono tre, papà, dicevo, che bello, guarda, ce n’è un altro. E mio padre che si rabbuiava, il sorriso di prima macchiato di qualcosa che non andava.
Adoravo passare i pomeriggi a guardare quella madre coi suoi cuccioli, lei legata al noce che cresceva al centro del giardino, i capretti che le zampettavano attorno, che si allontanavano e lei che li richiamava, che drizzava le orecchie e la testa, osservava i cani che strisciavano nell’erba, l’acquolina in bocca, la rabbia nelle incornate, il male che sembrava più forte e i guaiti che erano più acuti.
Adoravo guardare quei cuccioli che crescevano, due soltanto, il terzo che restava più piccolo. Correvo da mio padre, i suoi fratelli non lo fanno mangiare, dicevo, lo prendono a calci, non gli fanno prendere il latte, chiudili nella stalla, sono cattivi. Tifavo per lui, diverso anche nel colore del manto, quelle chiazze bianche diverse dai suoi fratelli che erano completamente neri, per quel cucciolo, per quelle carezze che sua madre gli dava, quegli incoraggiamenti. Tifavo per lui quando a testa bassa sembrava mettere su un’espressione sicura, convinta, la rincorsa che prendeva e l’impegno che metteva nello scacciare gli altri due per afferrare il nutrimento necessario, il fallimento di ogni volta, i fratelli che lo scalciavano, la sconfitta. Lo immaginavo crescere più piccolo, più sfortunato, lo umanizzavo e lo immaginavo all’interno di una società di capre che lo avrebbero bullizzato, schernito per il suo essere minuscolo, mi avvicinavo e gli parlavo, prendevo la madre, provavo a mungerla fino a quando lei non mi tirava un calcio, il segno dello zoccolo sulla pelle, il poco latte preso dentro a un bicchiere che il cucciolo non aveva toccato, come se fosse orgoglio quella rinuncia. Lo capivo, voleva farcela da solo, lo amavo molto.
Ho tifato per quel cucciolo fino al giorno in cui ho chiesto a mio padre dove fosse finito, lui che mi ha preso la mano, mi ha accompagnato sul retro della casa, davanti a terra smossa che interrompeva il verde dell’erba.
È morto, l’ho seppellito qui.
La voce ferma, impassibile. La mia che non riusciva a uscire, singhiozzavo, mi disperavo, una rabbia contro quei due sopravvissuti, contro la madre che non aveva fatto nulla, contro mio padre che taceva, che rispondeva alzando le spalle alle parole che finalmente ero riuscito a far uscire, chiedevo soltanto il perché di quella crudeltà.
È la natura, funziona così, non c’è niente da dire, da fare.
Eravamo rimasti lì, in due, qualcosa di molto simile alla preghiera, finché mio padre non si era stancato, mi aveva lasciato da solo, sotto al cielo che si faceva più scuro, la terra che si colorava di ombre che avevano iniziato a farmi paura.
In casa, allora, dopo cena, bisognoso ancora di mio padre che sapeva cos’era appena successo, la tranquillità nell’affrontare quello che per me era inafferrabile se non come grumo di dolore che avevo paura non se ne sarebbe più andato, gli avevo chiesto se avessimo potuto vedere insieme quel film che stava guardando, Robocop, e poi, dopo qualche secondo, la sua risposta, no, sei ancora piccolo, è troppo violento.
Rispondi