Il giorno in cui ho comprato un’agenda, ho accantonato l’idea di concepire la memoria come un archivio di attività ed esperienze che si costituisce per accumulazione, come l’Hard Disk di un computer, e che non siamo noi, o perlomeno il nostro agire razionale, a scegliere cosa verrà archiviato e cosa no.
Capita che mi scordi di rispondere a una mail o che tralasci un compito di lavoro se non lo appunto da qualche parte, così come capita che mi scordi eventi passati condivisi con amici o conoscenti. Tutte informazioni che si cancellano come file temporanei, senza che io abbia autorizzato nulla.
Può certo essere un precoce segno di demenza senile (dovrei appuntarmi da qualche parte la necessità di fare un controllo), o la conferma del fatto che la memoria non è esattamente ciò che intendiamo letteralmente col termine, ma qualcosa il cui principio di funzionamento è un altro: quello di selezione.
A essere selezionato è tutto ciò che serve a dar senso alla realtà che ci circonda, non quello che la occupa. Questo è fondamentale non solo per ricordare di appuntarsi le cose da fare, quanto per capire la natura delle persone.
Per farla breve: noi siamo ciò che ricordiamo.
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Lei, per esempio, è una tipa solare. Veste con abiti colorati anche nelle grigie giornate invernali e sorride fiduciosa al futuro, retto dalle solide fondamenta costruite dai ricordi del suo passato.
«A cosa pensi» gli chiede quando lo vede per la prima volta, incuriosita da quell’atteggiamento così funereo mentre una festa estiva impazza tutt’intorno.
Lui, ingolfato nelle sabbie mobile di un passato da cui non si è mai allontanato, risponde: «non te lo dico. Non voglio intristirti» caricando le parole di tutto l’angoscia che possono reggere prima di sprofondare in un pozzo nero senza fondo.
Lei regge il colpo. Così, per fugarle ogni dubbio, lui racconta dell’infanzia. Sono ricordi malinconici e traumatici, ma lei legge in questo tiro mancino giocato dalla vita una genuina cattiveria che solo a quell’età si può accettare con senso. Punti di vista.
«Tu non hai ricordi brutti?» le chiede, quasi a sincerarsi di non essere l’unico così, tetro.
Lei ci pensa, fa per dire no, poi qualcosa affiora: la morte del nonno. Ma non c’è nessun velo cupo in quel ricordo: le tinte, i colori, gli attori, la messa in scena: tutto rimanda a un pensiero leggero, affettuoso, come qualcosa vissuta con l’innocenza che solo a quell’età si può accettare con senso.
La memoria dei due innamorati lavora su binari paralleli. I ricordi di lei si orientano verso un polo positivo perché la mente seleziona solo ciò che trasmette serenità e fiducia nella vita. I ricordi di lui pendono verso il polo negativo perché la mente seleziona solo ciò che traumatizza la crescita.
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«Alla fine le cose sono belle perché sai che finiscono» dice lei, non rassegnata a un epilogo, bensì aprendosi alla potenziale felicità che si può conservare dentro un ricordo, se si accetta di vivere totalmente ciò che lo crea.
Lui, ovviamente, non è d’accordo: «le cose sono meno belle perché ci angosciamo che finiranno». Tutto è destinato a finire: la poesia diventa banalità, l’amore abitudine, la vita morte: come si può vivere anche un solo istante senza pensare a questo, di epilogo?
Il rapporto evolve dentro equilibri precari. Una stone balance costruita coi ricordi. Tutto sta nel trovare la giusta quadra, nell’evitare di utilizzare un ricordo troppo grande e pesante, che l’altro non sarebbe in grado di reggere.
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«Quante belle cose abbiamo vissuto. Ci vorrebbe un’altra vita per ricordarsele tutte», dice infine lei. Ma più che un’altra vita, dove tutto si ripeterebbe uguale sino al giorno in cui, pronunciando quella frase, sentiremo le orecchie fischiarci, ci vorrebbe una forma diversa di memoria, non solo per ricordarsi tutto, ma anche solo per scegliere cosa ricordare, e chi vorremmo essere.
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