di Sergio Oricci
A Venezia durante l’ultima Biennale di arte contemporanea, in un evento collaterale alla fondazione Cini vengono esposte le opere “L’apparizione” di Christian Lemmerz e “What is your name?” di Paul McCarthy. Entrambe fruibili attraverso un visore per la realtà virtuale. Nella prima, un Cristo fatto di luce si consuma facendo piovere sullo spettatore gocce di sé, come tante stelle che bruciano lasciandosi dietro una scia. Nell’altra, figure femminili si parlano una sull’altra e finiscono per fluttuare nello spazio in modo caotico, costringendo chi guarda a cercare di schivarle o a farsi attraversare.
Il mio primo incontro con la realtà virtuale però risale a molto tempo prima. A Firenze, negli anni ‘90, apre una sala giochi che sembra poter diventare il punto di riferimento per gli amanti di una tecnologia allora ancora in fase embrionale. In una sorta di avventura-labirinto dalla grafica stilizzata, è concesso muoversi, raccogliere oggetti e guardarsi le mani. Un’esperienza frustrante perché fortemente limitata, resa meno dolorosa dalla possibilità spostarsi in un’altra stanza e, per diecimila lire, giocare un’ora con un Neo Geo.
Dal Tagliaerbe a Matrix, passando per William Gibson e .hack// – una simulazione offline di un MMORPG uscita su Playstation 2 – ho sempre immaginato la realtà virtuale come un luogo in cui il corpo non dovrebbe più essere la casa stretta e scomoda in cui sono costretto a vivere nel mondo reale. Ogni volta che mi infilo un visore però l’esperienza è estremamente claustrofobica, e l’ansia prevale sulla voglia di esplorare una dimensione che forse adesso potrebbe davvero avvicinarsi a quello che ho letto, visto e giocato. Talvolta il malessere è fisico. Vertigini e nausea mi fanno credere che il mio io digitale abbia bisogno di un debugging, per diventare più efficace.
Se dovessi creare oggi un avatar in un MMORPG, avrebbe i capelli bianchi. Sarebbe molto magro, un po’ più alto di me e porterebbe magliette come quelle che indossa Travis Touchdown in No More Heroes di Suda51. Sarebbe un crafter, un costruttore di oggetti, vestiti e accessori. Vivrebbe in una casa sull’albero arredata in stile industriale, e sarebbe – ovviamente – un geek molto cool.
Indosserebbe sempre un paio di occhiali 3D, ma di quelli di cartone, con le lenti rosso-ciano. Gli stessi occhiali che porta uno dei protagonisti di Zombies ate my neighbors, videogame uscito per Sega Megadrive e Super Nintendo nel 1993.
Il problema più grande sarebbe trovare il nome giusto. È complicatissimo sceglierne uno, e quando mi decido è sempre già preso. Finirei per chiamarmi Ren88241, o Esch3r779.
Passerei il tempo nella mia casa-laboratorio in attesa di clienti, o magari su una panchina vicino a una cabina telefonica rimasta in piedi per chissà quale motivo. Sarei uno spacciatore di oggetti rari, magari anche inutili, in un server 100% roleplay dove non si fa PvP.
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