di Herman Sapo Descontento (essi vivono)
Con largo anticipo aspetto il ritardo del trentasette. Otto minuti. Quando finalmente arriva e salgo sull’autobus, il suo ritardo diventa il mio. La puntualità è importante. Me lo ripetono ogni giorno le stesse persone che mi impongono di fermarmi a lavoro oltre l’orario. Il ritmo della mia giornata è un ritardo inestinguibile.
Sull’autobus si sta in piedi, accalcati. Si procede lenti. Dopo le prime quattro fermate le gambe mi fanno male come se avessi corso. La camicia mi si appiccica alla pelle, come se avessi corso. Fare la strada a piedi, correre davvero. Forse dovrei. Forse dovremmo tutti. Ma non lo facciamo. Stiamo qui, stretti come polli in batteria, disgustati da ogni contatto, dalla vicinanza forzata. La puzza di sudore si mescola nelle narici al profumo intenso di Rose Amira. Un profumo notturno. Anche lui è in ritardo a quanto pare.
La regola non scritta è che non si guardano le altre persone. Le uniche parti del corpo permesse sono: le scarpe; le gambe dalle caviglie alle ginocchia; la schiena dalla cintura alle spalle. Se è possibile, è preferibile guardare fuori dal finestrino. Le persone a terra si possono guardare, perché è come se fossero su un piano temporale diverso. È comunque consigliato distogliere lo sguardo durante le fermate.
La vicinanza uccide il desiderio. Non c’è bestia in questa scatola su ruote che provi attrazione per un compagno di viaggio. È una legge fisica che io chiamo il teorema del trentasette: la repulsione è direttamente proporzionale al quadrato della prossimità.
Sul marciapiede c’è una mamma che tiene per mano suo figlio. Il bambino la strattona con forza. Vuole attirare la sua attenzione per farle vedere qualcosa che tiene in mano. Una margherita. Dove avrà trovato una margherita a Torino? Forse sono ovunque. Forse solo i bambini possono vederle. La madre è distratta, sta parlando al telefono con qualcuno. Non posso esserne certo, ma da come gesticola mi convinco sia una chiamata di lavoro. È proiettata in altre faccende, si sta perdendo il fiore che suo figlio ha raccolto per lei. Vorrei ci fosse un bottone, un interruttore da premere per spegnere quei pensieri che ci obbligano a fuggire dal presente. Sarebbe bello. Clic. E subito sono dove dovrei essere con corpo, testa e cuore.
Mi immagino in ufficio e anticipo la reprimenda che mi aspetta. Sento un fastidio dietro le orecchie e sotto lo sterno, come mi capita ogni volta che mi sale la pressione. Se mi fossi messo a correre forse avrei raggiunto la fermata del quaranta. Mi avrebbe lasciato un po’ distante, ma con un buon passo sarei arrivato con solo quattro o cinque minuti di ritardo, invece di otto, che ormai saranno dieci o peggio. Continuo a pensare a cosa è stato, cosa sarà, cosa avrebbe dovuto essere. Non sono mai nel tempo giusto.
Devo pensare positivo, aggrapparmi a qualcosa di bello, spegnere i pensieri che mi proiettano altrove e l’interruttore per farlo è un’immagine felice, una sola piccola immagine felice. Chiudo gli occhi e vedo mia madre, com’era quand’ero bambino. Però strilla. Pensa a chi è meno fortunato di noi, mi dice. Obbedisco e il fiato, le pance, le braccia degli altri passeggeri diventano il fiato, le pance e le braccia dei senzatetto, dei bambini affamati dell’Africa, dei disperati sotto le bombe. Con le mani tasto la sbarra di ferro a cui sono aggrappato, la percorro da cima a fondo finché trovo qualcosa, un piccolo cerchio di plastica, un pulsante. Lo premo. Nessun clic ma un suono più acuto, somiglia al campanello da reception degli alberghi.
La mia fermata. Somiglia a tutte le altre, ma questa è mia. Prima che il bus si fermi mi faccio strada strusciando le braccia sudate su altra pelle, altro sudore. Scivolo come pesce fresco tra la gente. A ridosso delle porte, dove la calca si fa più intensa, abbasso le braccia per occupare meno spazio. Un gesto imprudente, compiuto senza pensare. Col dorso della mano destra intercetto una consistenza diversa. La superficie è ruvida, ma soffice ed elastica insieme. Indugio nel contatto alla scoperta di quel corpo inatteso. Ci metto troppo tempo a capire che si tratta di un paio di jeans e ritrarre di scatto la mano dal culo.
Clic.
Mi accascio su me stesso prima ancora che il dolore abbia il tempo di fare la strada dalle gonadi al cervello e ritorno. Quando arriva, quando finalmente il dolore attraversa i testicoli e si irradia come un incendio per tutto l’inguine, non c’è spazio per nient’altro. Non c’è prima, né dopo. Nessun pensiero, nessuna preoccupazione. Solo dolore. Qui e ora. Nessuna proiezione, nessun altrove. Mi accorgo che sto sorridendo. La felicità è una ginocchiata nelle palle.
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