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Povere creature | Imparare

19 Febbraio 2024 di ferruccio mazzanti

 

 

 

Sono sempre stata una ragazza di città fin nel midollo. Ricordo la prima volta che i miei genitori mi hanno portata fuori da Firenze, era per andare a trovare mio zio in campagna. Aspettavo davanti al porticato della sua bellissima casa immersa tra gli alberi, quando un’ombra che si è mossa velocemente ha fatto sì che il mio dannato prossimo battito del cuore di bambina di tre anni saltasse fuori dal mio petto con un singulto a forma di OH! Ho gridato che quella materia nera che si era mossa ai margini del mio campo visivo era il ratto più grande che avessi mai visto. Mio zio mi ha risposto con premura che, cara Bella Baxter, sei la mia parente preferita, ma quello era un gatto. Ho dovuto imparare a riconoscere gli animali.

Dopo di che i miei genitori devono aver finalmente capito che ci sono delle cose che non si possono apprendere rimanendo confinati dentro a una città come Firenze, talmente compiaciuta dalla propria bellezza da preoccuparsi per cose irrilevanti, così ogni estate iniziammo a migrare nella parte più a ovest della Liguria. Mio padre aveva solo due settimane di ferie all’anno, quindi non appena si ripresentava il mese di agosto ogni volta uguale a se stesso, impacchettavamo tutto quel che riuscivamo dentro al Van e seguivamo la bianca linea spezzata dell’autostrada finché non era più possibile andare oltre. Ho imparato a guardare fuori dal finestrino, forse solo a guardare.

È lì, in quella estrema punta dello Stato italiano che ho imparato a nuotare, è dove ho sentito per la prima volta la parola merda detta da un gruppo di ragazzi che facevano wind surf giù su quella spiaggia rocciosa piena di ciottoli. È qui che ho imparato ad andare in bicicletta zigzagando tra le pozze piene di pioggia pomeridiana. È dove ho imparato a guidare una macchina tra le attrezzature lasciate fuori dal parcheggio di un negozio, e anche come baciare un ragazzo con la sabbia tra i denti. Ho imparato a piangere.

Il tempo scorre in questo posto con un’andatura perfetta per prendersi una pausa, ma una pausa da chi o da cosa? Le cinture si sciolgono, ci si siede sulla veranda accanto a mio padre che fa la brace, le gambe cuociono al sole. Si legge un libro nascosti nell’ombra, si compra un costume pezzo unico. Si ciancia in cucina mentre mia madre impasta il suo pane di semi e se la ride sotto i baffi quando si accorge che sta parlando ad alta voce con se stessa, dicendo cose a nessuno in particolare, come scommetto che la crostata sarà deliziosa domattina a colazione. Ho imparato ad amare i miei genitori.

Il tempo si spegne, si blocca. Ho sette anni. Il mio piccolo fratello ne ha tre. Lui si tuffa nei cuccioli di pozza, mentre io sfido una piscina olimpica tutta da sola, paffuta nel mio costume pezzo unico, le mie cosce che si strusciano le une sulle altre non appena sbatto i piedi nell’acqua. Quando raggiungo la parte poco profonda della vasca, guardo verso l’alto e vedo una ragazza più grande di me nel suo perfetto bikini, alta e abbronzata, probabilmente in procinto di incontrare il suo affascinate, bellissimo Principe Azzurro. Lei risplende mentre passa, sistemandosi i capelli come se conoscesse già tutte le risposte. Mi domando se sarò mai una donna come lei. Ho imparato a desiderare le stelle.

Ho dodici anni. Il mio piccolo fratello ne ha otto. Lui va sul wind surf meglio di me e io lo odio. Aspetto il giorno in cui lui e tutti gli altri abbiano finito di surfare per pagaiare con le mie grasse mani spugnose fino al punto in cui c’è il frangiflutti. Non è rimasto nessuno in acqua. Il sole che tramonta rende l’oceano di un oro brillante. Controllo se sotto di me ci sia qualche pesce, ma sembra che non ci siano esseri viventi nei paraggi. In cielo non c’è neppure una nuvola da trasformare in un volto con cui chiacchierare. Piego le mie gambe sulla tavola e le stringo con le braccia. Ho imparato a stare da sola.

Ho sedici anni. Mio fratello ne ha dodici là giù sulla spiaggia rocciosa piena di ciottoli. Leggo una rivista sul divano del salotto quando appare mia madre con il laptop in mano, l’unico computer presente in casa. Mio fratello ha cominciato a scaricare video porno e mia madre deve decidere cosa fare. Quella stessa notte, quando vado a controllare le mie email, scopro che mia madre ha creato una nuova cartella e l’ha nominata “I Porno di MC”. Ho finalmente imparato a condividere.

Ci sono certe cose che non puoi imparare a Firenze. Ci sono posti dove rete da pesca non significa accumulare pesci, dove l’apprendimento avviene nei momenti di mezzo, come per esempio quando un’onda è appena passata e tu spezzi la superficie dell’acqua annaspando in cerca dell’aria. Ci sono momenti che ti insegnano più cose di altri, anche se questa non è una classifica. Ci sono persone che ti ricorderai per sempre anche se le hai viste per pochi giorni. Ho imparato a lasciare andare.

Ho ventidue anni. I punti di riferimento sono sempre gli stessi, lo stesso tratto di spiaggia, gli stessi attrezzi nel parcheggio del negozio, anche se qualche nome è cambiato. La piscina no. Faccio la mia nuotata in bikini fino alla parte meno profonda e la guado lentamente. Esco e mi aggiusto i capelli bagnati. Qui posso prendere il mio tempo. Guardo verso l’alto e vedo una piccola ragazza paffuta nel suo costume pezzo unico mentre si aggrappa al bordo e mi spia dal basso. I suoi occhi hanno le dimensioni dei pomodori estivi e sono rossi a causa del cloro della piscina. Sto quasi per dirle qualcosa di carino che avrei voluto sentirmi dire quando ero io a spiare le ragazze più grandi, ma prima che mi riesca qualcuno si tuffa in acqua. È una donna che porta molto bene i suoi cinquanta anni, paffutella nel suo costume pezzo unico. Si è tuffata facendo la palla di cannone nella parte più profonda della piscina. Viene fuori tossendo, agitandosi, l’acqua è entrata nel suo naso. Viene fuori ridendo. Ci vede mentre la osserviamo, ma non le importa un gran che. La piccola ragazza ridacchia. E io? Beh, ridacchio pure io. La cinquantenne ci vede in quel momento di condivisione e, scuotendo la testa per far uscire l’acqua dal suo naso e dalle sue orecchie, sorride camminando verso di noi. Solleva le spalle, poi le riabbassa e ci dice: Sapete, sono in quella fase della vita in cui si impara a essere simpatiche.

 

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Postato in: Anatomia di un fotogramma, La scena tagliata, La sindrome del personaggio secondario, La vertigine della lista Tag: Emma Stone, lanthimos, Povere Creature, yorgos lanthimos Fai un commento

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