di Rebecca Moore
Se ne stava sempre in giardino, ad un tavolinetto di metallo che si portava dietro e che posizionava al sole o all’ombra, a seconda dell’ora della giornata, per cucire a maglia. Faceva delle canottierine e dei maglioncini che poi indossava, dai toni pastello e poco coprenti. Sparivano sulla sua pelle da tedesca, soggetta a ricoprirsi di macchie rosse non appena esagerava con il tavolino. E non sembrava abituata a stare nella natura, ma non per questo non le piaceva – ci diceva – e non faceva la sua figura nel giardino di mia madre, virginea e pallida in mezzo alle rose. Occhi grigi, statura media; non era bella, ma lo era in mezzo ai fiori, a cucire all’uncinetto con il mio cane ai suoi piedi. Il cane si era innamorato di lei e la seguiva ovunque – forse perché aveva più tempo di noi per giocarci e a lui importava quello – e io e mia madre eravamo molto gelose di questo passaggio d’affetto.
Mia madre li aveva accolti benignamente: lui lavorava da casa, mentre lei aveva lasciato il suo lavoro per dedicarsi al cucito, e insieme viaggiavano e si spostavano ogni due, tre mesi. Gli aveva affittato una casa, ma di solito tollerava con sopportazione gli ospiti; era più mio padre che si occupava di intrattenerli. Tutti, anche i più simpatici, prima o poi finivano per far qualcosa per irritarla. Una volta aveva dovuto rimettere a posto tutti i mobili dell’appartamento, e cercare ovunque gli oggetti perduti, perché qualcuno si era divertito ad arredare. Così, quando erano arrivati, io e mio padre ci eravamo chiesti cosa le avesse potuto far cadere il suo solito, implacabile giudizio. Lui è molto più bello di lei, disse mia madre; ma tanto le donne del nord sono sempre più brutte dei loro uomini. Erano una coppia perbene. E forse, nonostante le fitte della gelosia, il cane non stava solo.
La mattina presto prendevano le biciclette e facevano quei settecento metri di salita che servono per arrivare alla strada principale e andare in paese. Facevano la spesa e quando tornavano la sua risata da xilofono si sentiva dal fondo del giardino, dove noi eravamo a lavorare la terra e dove le voci parevano vicine. Poi lui spariva in casa, misteriosamente, dato che non gli ho mai chiesto che lavoro facesse. Ci avrò scambiato, sì e no, in tutto dieci parole, anche se era più bello e forse più simpatico di lei – ma era con lei che invece parlavo.
Quando tornavo a casa la trovavo al tavolino; oppure di fronte alla loro porta di casa, che lei lasciava aperta. Il cane, anche se mi sentiva arrivare, non mi veniva più incontro, alzava solo la testa e faceva un accenno di coda.
Un giorno salivo le scale e fu lei ad alzare la testa. Si lamentava delle zanzare e che la notte non la facevano dormire. Le dissi che avrei potuto darle un fornellino, e feci per andare in cucina a prenderglielo, ma lei mi trattenne perché l’idea di dormire con il veleno non la tranquillizzava. Allora – le dissi – forse non avrebbe dovuto lasciare la porta aperta. Lei mi guardò placidamente, mi sorrise, tanto che pensai non mi avesse capita; poi si rimise a sedere e riprese in mano gli uncinetti.
Feci un piccolo fischio, ma il cane mi guardò con la stessa placidità, anche se lui fu più esplicito. Allora pensai a qualcos’altro da dire, pur di non andarmene senza di lui.
«How lovely,» e indicai la maglia che teneva fra le mani, una maglietta a maniche corte color rosa fragola, a cui in quel momento stava aggiungendo il dettaglio di un bordino nero. Per un momento pensai che avrei potuto chiederle di farmene una, che quelle magliette e canottiere erano deliziose e che di certo erano un’occasione. Avrei potuto essere una delle sue prime clienti.
«Oh, thank you. I’m making this one for me, I already have the matching top.»
Mi sentii in un terribile imbarazzo e mi vergognai di aver desiderato qualcosa che era suo; come se mi fossi dimenticata di essere cresciuta e fossi tornata bambina. Poi guardai meglio la maglia rosa che aveva fra le mani e le sue lunghe dita che la lavoravano: perché mai l’avevo desiderata? I colori erano un po’ infantili, mi ricordavano il cappellino a forma di fragola delle feste di Carnevale. Avrei mai potuto indossare un indumento simile?
Una mattina ero nell’orto e sentii sbattere la porta di casa. La vidi scendere le scale e, a testa bassa, sparire per il vialetto del giardino. Poi per gran parte della mattinata non la vidi più, finché non riapparve con un mazzo di fiori selvatici e con quelle sue scarpe molto graziose ricoperte di fango – che forse, nella fretta di uscire, non aveva avuto tempo di cambiarsi. Sembrava meno arrabbiata di prima, ma lo sguardo era triste. Pensai che avessero litigato e la cosa mi rallegrò.
«Hello,» le dissi, questa volta più sicura di me.
«Oh, hi there.»
«No knitting today?»
«I’ll give it a rest for a day or two, it’s good for my ideas.»
Rimanemmo un attimo in silenzio, nel patio, io con le cesoie di mia madre in mano. Stavo potando il lillà.
«So, is this what you really want to do?» le chiesi «your business idea?»
Aveva lasciato il suo lavoro di punto in bianco, così la sua città, la sua casa. Come ci si sentiva ad avere un unico compagno di viaggio?
«Oh, yes. I hated my job, and everything about it. The sitting and the stillness; the habit. Yes, the habit more than anything.»
«Don’t you miss your family then, your friends?»
«Oh well, we still go back once in a while.»
«And where to after this?»
«Spain, I think.»
Mi sorrise, aggiustava i fiori che teneva in mano e toglieva le foglioline ormai sgualcite fra le dita calde. Mia madre uscì dall’appartamento accanto, con il sacchetto del vetro in mano. Contava quante bottiglie di vino avevano bevuto gli ultimi ospiti, lo faceva prima di buttarle.
«Do you have glass?» chiese mia madre, indicando il contenitore; non parlava bene l’inglese. Lei fece di no con la testa e mia madre ci sorrise, prima di allontanarsi. Lasciò spalancate tutte le finestre della casa.
«And you,» mi chiese poi lei, «are you happy with your life?»
Non mi aspettavo che potesse essere lei, poi, a fare le domande e pensai che quella – in particular – fosse una domanda piuttosto privata da fare. How English of me.
«Well, I always thought that I should have gone on and got my PhD, but I decided not to in the end.»
«How so?»
«The best choice was America, and it was too far away.»
Lei mi guardava senza sbattere le palpebre, con quei suoi languidi occhi grigi. Per un attimo, sembrò palpitarle una parola, sul bordo delle labbra…
«So I stayed, finished my book.»
«Darling!»
Ci girammo di soprassalto: io, lei e il cane. Il suo compagno la chiamava, il corpo sporto in avanti verso l’esterno, una mano sulla maniglia della porta aperta.
Bellissimo. È vero, ci sono questi momenti in cui una conversazione fra due persone sembra che debba spiccare un volo intimo, quasi le due persone si conoscessero da una vita, e poi puff, persa l’occasione e si ha la consapevolezza che non tornerà mai più.
Bellissimo film, da guardare in lingua. E anzi, noto solo adesso il collegamento nell’uso delle diverse lingue che c’è sia nel film che nel racconto. Pazzesco.
Il racconto è molto bello, scritto in modo asciutto. I personaggi arrivano in modo sottile, attraverso dettagli visivi o frammenti di dialogo interno. Trasferisce, senza mai descriverla direttamente, irrequietezza fremente e sommessa. Aleggia un’aria di indefinita curiosità mista a risentimento. Umanissima invidia non per la vita altrui ma per il coraggio di “allontanarsi troppo“. Il paradossale desiderio, che a volte si fa sentire forte, di essere qualcun altro.