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Pane e cioccolata | Ad Hatfield si respira aria pesante

24 Giugno 2023 di Redazione

Essi Vivono ST02, Ep 17

di Giulio Fusco

 

Cercando su internet le curiosità di Hatfield, piccolo villaggio industriale a nord di Londra dove vivevo da qualche anno, scoprii che aveva dato i natali a Guy Ritchie, regista di Snatch, capolavoro del cinema pulp, e che aveva anche ospitato il concerto di Sting e i Police quando per la prima volta suonarono Message in a bottle. La domanda che mi sorgeva spontanea a seguito di questa ricerca su Google era: che cosa è andato storto per far diventare Hatfield ‘sta schifezza? Infatti, a Natale riusciva ad essere ancora più triste del resto dell’anno: il sole tramontava alle tre e mezzo del pomeriggio, pioveva spesso, si svuotava degli studenti multietnici di famiglia working class della University of Hertfordshire. E gli operai dell’est Europa, lavoratori della multinazionale lì presente, Ocado, si sbronzavano più ferocemente del solito. E neanche chi faceva pubblicità alle pizzerie junk, tipo Domino’s e Papa Jones, coi loro tristissimi vestiti da supereroi di licra lercia, si vedevano più all’entrata del campus. Tutto questo incupiva ancora di più un villaggio industriale composto da casucce minuscole fatte di mattoni rossi, tutte identiche, che delineavano strade anonime che ad ogni incrocio si trasformavano in sottopassaggi grigi, sfociando in rotonde seminterrate con aiuole piene di rifiuti e ratti. Non aveva nessun monumento, nessuna vista, nessun museo, nessun ambiente degno di nota, solo niente di niente condito in un rumore di fondo costante di macchine che sfrecciavano sull’autostrada lì vicina. Le uniche eccezioni erano “La Galleria”, un centro commerciale grande dove immigrati e famiglie annegavano la propria domenica nel consumismo; e l’”Asda”, un supermercato con corridoi interi di sole patatine, sode, alcool e dolciumi, dove studenti alla prima esperienza fuori casa, potevano assaporare la prima illusione della libertà, mangiando schifezze e bevendo come fogne.
La prima volta che avevo visitato Londra era l’estate del 2012, mentre l’atmosfera festosa delle olimpiadi si mescolava con un cielo insolitamente limpido e un caldo piacevole, che incitava i londinesi a riversarsi nei pub e nei parchi dopo il lavoro. Vedendo miriadi di coppiette anglo-sassoni, in carriera e ben vestite, che amoreggiavano per le strade, e gruppetti di amici o colleghi che scherzavano tra le pinte di birra attraverso le vetrine dei pub, mentre i grattacieli della city splendevano imponenti, capii che il futuro che volevo per la mia vita era lì ed era fatto in quel modo. Se poi ci mettiamo che l’Europa, soprattutto quella del sud, stava attraversando una delle crisi finanziarie più nere degli ultimi decenni, e che mio fratello, dopo aver completato un master in un’università inglese, stava cominciando un’ottima carriera come lobbista, la mia decisione era già presa: avrei proseguito i miei studi di biologia in Inghilterra e successivamente avrei trovato un impiego pertinente alla mia istruzione a Londra, dove sarei entrato a far parte di quel bel quadretto.
Tuttavia, i miei sogni non trovarono riscontro nella realtà, perlomeno non completamente. Mi laureai con un master in Biotecnologie in un’università abbastanza prestigiosa, ma non riuscii a trovare un lavoro pertinente alla mia istruzione. Finii’ a Londra, ma dietro la reception di un hotel a 3 stelle che non ne meritava mezza, carissimo ma amministrato terribilmente, con una paga da schifo e ritmi di lavoro allucinanti. L’affitto di una stanza in una zona decente a un’ora di metro dal mio lavoro, si mangiava tre quarti del mio stipendio, e l’atmosfera con gli altri coinquilini era delle peggiori: ognuno veniva da una parte di mondo completamente diversa e non c’era nessun interesse a comunicare, né c’era la carta igienica in bagno – ognuno si portava la sua. A quel punto, cominciai a notare che la swinging London non era dorata come i ricordi mi suggerivano. Non mi accorgevo più degli anglosassoni in carriera e ben vestiti, né dei locali hipster delle zone centrali. Al contrario, cominciavo a vedere un esercito di lavoratori di tutte le etnie del mondo, mal vestiti, e con la faccia sfiancata dal lavoro nella metro delle cinque di mattina, e chuves violenti e alcolizzati nelle periferie lontane dal centro. Sull’orlo della crisi di nervi, inviai il mio curriculum dappertutto e alla fine trovai lavoro come assistente di ricerca ad Hatfield alla University of Hertfordshire e mi trasferii lì. Sì, lo so, non era un bel posto dove vivere, ma avevo trovato un lavoro come ricercatore ed ero convinto di essere professionalmente sul binario giusto, un sacrificio che ero orgoglioso di fare se, dopo grandi sforzi, mi avrebbe fatto guadagnare la vita degna della Londra in zona 1.
Era innegabile: mi sentivo molto alienato in quella società, vuoi per le mie aspettative che non avevano incontrato la realtà, vuoi per una padronanza della lingua che ancora mancava, vuoi perché ancora non conoscevo quasi nessuno… Ma era Natale e quindi si apriva una piccola parentesi dove il mio disagio sarebbe stato dimenticato e avrei apprezzato le gioie del tornare a casa: una teglia di lasagne, un cielo limpido, la famiglia, gli amici, etc.
Trascinando le valigie, arrivo a casa e apro finalmente il portone. Entrando nell’ingresso del palazzo, che mai prima mi era sembrato tanto signorile – soprattutto rispetto ai postacci dove avevo vissuto in quei mesi – mi avvio verso l’ascensore, da cui vedo uscire un ragazzo di colore, altissimo e magrissimo. Lo saluto appena mi vede, e subito noto in lui espressione di sorpresa e spavento, quasi imbarazzo, prima di salutarmi a sua volta con forte accento senegalese. In quei due secondi prima di aprire la porta ed entrare nell’ascensore, mi passa per la testa che se io sentivo un forte senso di alienazione vivendo in un paese che tutto sommato non era troppo diverso dalla mia patria per valori e cultura, come poteva sentirsi lui? Lui che probabilmente si trovava veramente in un posto molto diverso da casa sua, lui che si trovava in un paese fondamentalmente razzista e prevaricatore, che non si era mai abituato alla multiculturalità, tanto che dire ‘negro’ o fare i cori delle scimmie allo stadio, erano ancora cose che capitavano sovente. Nella mia testa rimbombarono le notizie di migranti morti in mare e gente che scappa da guerre e gruppi fondamentalisti dalle azioni violente e barbare. Chissà se anche per lui la realtà aveva tradito le sue aspettative di un futuro migliore a Firenze. Chissà in che condizioni psicologiche si trovava, se era bastato un ciao a spaventarlo?
Sentii un forte senso di fratellanza come non avevo mai sentito prima.
Entrai nell’ascensore. Aveva scureggiato di brutto.

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Tag: Essivivono, giulio fusco, pane e cioccolato, uditori Fai un commento

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