L’inquilina del secondo piano di notte accende le luci del salotto. Restano accese per due ore, a volte tre. La vedo camminare da un lato all’altro della stanza, con una vestaglia a fiori, i capelli grigi raccolti in una crocchia. Parla, non so a chi perché vive da sola, o forse non parla, muove solo le labbra.
Un giorno è tornata a casa con una macchina da scrivere, una di quelle anni cinquanta, con i tasti tondi. L’ha messa sulla scrivania del salotto e si è seduta. È una scrivania minuscola, in legno scuro, lo spazio appena per appoggiare i gomiti. Io non vorrei mai una scrivania così, non saprei dove mettere i fogli, le penne, i libri, il computer, una bella lampada, sì, ci sono un paio di cassetti, ma sembrano inutili, poco capienti, stretti, di quelli che li riempi troppo e non si aprono più e le cose soffocano stipate schiacciate pressate e scivolano dietro il cassetto, tra il fondo del mobile e il muro, e scompaiono, non si trovano più. C’è un mondo dietro i cassetti tra il fondo dei mobili e il muro, un mondo di foglietti futili e importantissimi, che ci fa perdere la testa a cercare senza trovare, imprecando. La casa nasconde ma non ruba, diceva sempre mia nonna. Poi si metteva il grembiule e mi toglieva il malocchio.
Insomma, quella notte si è seduta alla scrivania con la sua vestaglia a fiori e ha iniziato a battere sui tasti della macchina da scrivere. All’inizio con incertezza, con delle lunghe pause in cui forse fissava qualcosa in un angolo della stanza o forse cercava di ricordare chi era. Poi più veloce, con slancio, concitazione, agitazione. Potevo distinguerne il ticchettio, il tempo era un respiro tic tic silenzio tic tic tic. La vita era un respiro tic tic silenzio tic tic tic. Quando i capelli hanno cominciato a fluttuare nella stanza lei non si è mossa. Seduta alla piccola scrivania in legno ha continuato a battere sui tasti, le dita adesso si muovevano rapide, fluide, con violenza. Ciocche grigie le cadevano disordinate sulle spalle, sugli occhi, poi si alzavano improvvisamente e disegnavano nell’aria geometrie irregolari, come serpenti le sibilavano alle orecchie e lei, medusa, si fermava ad ascoltare, inclinava la testa, le dita sanguinavano per la pressione e per l’ardore. I nostri sguardi si incrociarono per un istante e io rimasi pietrificato davanti alla finestra fino all’alba. Da giovane doveva essere bellissima. Da quella notte le luci del salotto sono rimaste spente.
Provo a raccontare gli altri, a spiare nelle persiane accostate, a frugare nelle tasche dei cappotti di lana. Provo a raccontare qualcosa di vero, sincero, qualcosa di necessario, di impellente. Provo a guardare le persone, provo a capire, a indagare, a diventare spettatore. Le persone sono preziose, sono bellissime, sono luminose e buie. Sarà noioso, sarà pedante, sarà banale? Allora ci metto un arcobaleno, un unicorno, un giocoliere senza braccia, un pittore del Cinquecento, un carretto dei gelati thailandese. Io l’ho visto un carretto dei gelati thailandese, in Thailandia, e ho preso il gelato, l’ho mangiato con gusto e soddisfazione infischiandomene di come fosse confezionato il ghiaccio. Quindi finisce che parlo di me, e anche male. Poi una mosca mi svolazza davanti agli occhi e mi distraggo, la seguo per vedere dove sta andando, apro la finestra per farla uscire dalla stanza. Scrivo una storia dove ci sono io e una mosca che mi svolazza davanti agli occhi. E le persone, gli altri, scivolano dietro i cassetti, tra il fondo del mobile e il muro, in mezzo a foglietti futili e importantissimi.
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