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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin | Es mi tío

17 Novembre 2020 di Leonardo Biancanelli

Sono un figlio di Apollo rapito da Dioniso, mezzo cavallo mezzo uomo, e ambisco a mettere ordine a un caos di cui mi sono invaghito, incapace di fuggirlo. Ma, ahimè, è triste la sorte di chi si innamora del proprio fallimento e ogni passo è buono per farmi tremare. 

«Vorrei nolle», mi dico, ma «e i check-point?». 

«Devo trovare un metodo», penso, allora mi preparo: compro i biglietti in anticipo, li prenoto persino. 

Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin arriva in un cinema soltanto lunedì 19 ottobre e martedì 20, poi chiude tutto, il virus ci inghiotte.

«Dov’è il mio In Patagonia?», ripenso, e mi dico che è in uno degli scatoloni, «sicuro», e così il demone mi mette subito i bastoni tra le ruote. Sarebbe stato bene rileggerlo prima del film, ma gli scatoloni sono tanti, soprattutto sono lontani: quattro scatoloni di libri sono in una soffitta in via del Palmerino 6; quattro scatoloni, più mezzo scaffale, al numero 12 della stessa via; due scaffali di libri in località Pratelli, a Loppiano; mezza libreria in via Argelati 12, a Milano; una libreria in via Monteverdi 5, a Reggio Emilia. 

«Non mi ricordo nemmeno più il colore della copertina» e allora, mi dico, «esco e compro un libro di Bruce Chatwin», uno qualunque, basta che sia usato. 

In una bancarella di Largo Cairoli trovo Che ci faccio qui?, lo compro. Arrivato a casa leggo l’indice. 

«Metodo» mi ripeto, e compare il nome di Herzog, «sono sulla buona strada»:

            

   Werner Herzog nel Ghana                                    171

 

ma invece di fermarmi, continuo a scorrere l’indice e leggo poco sotto: 

     

    Ernst Jünger: un esteta in guerra                       359

 

Bam, sono fottuto. Vado a pagina 359 e leggo l’incipit. 

Due mesi fa ho iniziato a leggere i diari di Jünger, li leggo a spizzichi e bocconi, come tutto del resto, perché mentre li leggo mi succede sempre la stessa cosa. Ma ora ci ritorno, lascio Che ci faccio qui? e vado alle Irradiazioni. Poche righe bastano e saluto anche Jünger, perché mi assalgono alcune immagini della Normandia, dove c’è l’ennesima storia abbandonata alla polvere salmastra su uno scaffale, in rue de Tamaris 1. 

Il caos ha prevalso, ormai. Torno a Che ci faccio qui? e al suo indice:

 

      André Malraux                                                       144

 

Leggo André Malraux. Ormai è così: dovrei leggere Werner Herzog nel Ghana, invece leggo altro. Non mi ricordo più nemmeno se, alla fine, l’ho letto prima o dopo essere stato al cinema e aver visto Nomad. 

Il 19 ottobre, alle 20:00, sono in sala e, mentre guardo il documentario, quasi subito appare una fotografia in bianco e nero di un relitto navale a Punta Arenas. Mi sembra di averla già vista quella fotografia, ma non riesco a ricordare dove. Poi mi colpisce un capitolo del documentario: The nomadic alternative (“L’alternativa nomade”) s’intitola: vengono mostrate altre fotografie in bianco e nero, dell’ultima popolazione nomade della «Tierra del Fuego» – lo pronuncia orgogliosamente in spagnolo, Herzog. Poi sullo schermo se ne vede una carrellata: fotografie di sciamani dipinti di bianco, con le braccia al cielo e le pance prominenti, coperti di pellicce o completamente nudi, gruppi che danzano, gruppi che cantano. Il documentario continua, io ormai non ci capisco più niente, o forse tutto.

In Che ci faccio qui?, che continuo a leggere a intervalli irregolari, qualche giorno dopo arrivo a pagina 270: ci sono alcune riflessioni sulle invasioni nomadi e spunta il nome dei Tungusi. 

Ricordo che avevo comperato un libro in un’edicola a Bologna, alla stazione Centrale, dopo essere sceso dal treno. Testi dello Sciamanesimo siberiano e centroasiatico era il titolo del libro, ma non ricordavo l’autore, soltanto l’editore, Utet. «Dove ho messo quel libro?», penso, e scatta l’ennesima ossessione.

Torno a Firenze per qualche giorno, cerco nella soffitta di via del Palmerino 6 e apro tutti gli scatoloni, tiro fuori ogni libro, ogni pezzo di mille imbrogli caotici che però in quel momento non voglio seguire: «un po’ di metodo, un po’ di metodo», mi ripeto. 

Non riesco a trovare i Testi dello Sciamanesimo siberiano e centroasiatico, ma in uno scatolone al civico 12, nella mia vecchia stanza, salta fuori la copertina azzurrognola – forse più verde acqua – degli Adelphi; è In Patagonia. Apro il libro e la vedo, Relitto di una nave a Punta Arenas, la didascalia. Il segnalibro che avevo usato è un biglietto aereo: Paris-Orly – Pisa del 31 agosto 2013, 16:45, che mi riportava per l’ennesima volta lontano da rue de Tamaris 1.

A Milano, in pieno lock-down, torno a Che ci faccio qui? ormai nella confusione più totale: ho perso di vista ogni speranza di sbrogliare una matassa che continua a complicarsi sempre di più, a mescolarmi la vita nei libri che leggo. Torno all’indice:

       

       10. Coda                                                                      409

              L’albatro                                                                411

 

Bruce Chatwin qui racconta una cosa incredibile. Racconta che un albatro dal ciuffo nero – specie che cova sull’isola dell’Eremita, nel Canale di Beagle – nell’Ottocento aveva seguito una nave a nord dell’Equatore e che per un guasto «ai suoi meccanismi di orientamento» era arrivato sopra una roccia delle isole Færöer per poi finire impagliato al Museo di Copenaghen. 

Chatwin voleva vedere quell’albatro già da quando lui stesso si trovava nel Canale di Beagle, sull’isola di Navarino, ma una tempesta gli impedì di andare sull’isola dell’Eremita. Non riuscì a vedere l’albatro e dovette rimanere a Navarino, e lì incontrò un vecchio indio, Nonno Felipe. Un anno e mezzo dopo, un naturalista gli disse che c’era un albatro dal ciuffo nero anche a Hermaness, sulle Shetland, e Chatwin si precipitò a prendere un treno per Aberdeen, per poi raggiungere Hermaness. 

Sul treno per Aberdeen che partiva da King’s Cross, Chatwin si trovò nella stessa cuccetta con un «giovane scuro di pelle e piccolo di statura». «Avrei dovuto capirlo subito», scrive. «Era un indio sudamericano» che veniva da Punta Arenas, e che abitava nell’isola di Navarino. «Conoscerà Nonno Felipe», scrive Chatwin. «Es mi tío». Era suo zio. 

L’albatro è la chiave, ma una chiave a me inaccessibile. C’è ormai così tanto disordine nelle traiettorie del mio albatro interiore che non posso far altro che vederne il fallimento. 

Non ci avete capito molto nemmeno voi, vero?

Ma è così bello quel disordine…

 

 

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Postato in: La sindrome del personaggio secondario, Oceani di autoreferenzialità Tag: Australia, Bruce Chatwin, L'albatro, Nomadismo, Nonno Felipe, Punta Arenas, Viaggio, Wales, werner herzog Fai un commento

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