Mariella ha sempre faticato a capire i cambiamenti epocali che hanno attraversato la sua vita: la rivoluzione sessuale, il sequestro Moro, il crollo del muro di Berlino, l’unione della cucina con il salotto. Osserva le mani di Filippo che si muovono nell’aria e indicano punti invisibili nella stanza vuota. Lì andrà l’isola, là il tavolo, giù in fondo il divano. Forse sarà a L, oppure a due posti e in quel caso bisognerà prendere anche una poltrona. Nella nicchia di cartongesso ci sarà il televisore e sopra i cataloghi delle mostre. «E quando cucini come fai? Si impuzzolisce tutto il salotto»
«Qui ci sarà la cappa. E poi non è un salotto, è un open space».
Mariella annuisce come se avesse capito.
«Però metti che arrivano ospiti a cena e magari cucini il pesce oppure il ragù…»
«Mamma, sono vegetariano dal 2013»
«… quelli sono odori difficili da mandare via e possono dare fastidio»
«Ma così stiamo tutti insieme».
Mariella gira su se stessa cercando di immaginare la casa del figlio, fatta di ospiti seduti sul divano che ti parlano mentre cucini. Ma cucini cosa? Pasta al pomodoro? Al pesto? Risotto ai funghi? Frittata di spinaci? Ma le frittate si possono mangiare? Il problema sono i polli o anche le uova?
«Lo sgabuzzino dove sta?»
«Non c’è. Con l’architetto abbiamo scelto dei mobili a scomparsa dove mettere scope, secchio, barattoli, pasta e tutto il resto»
«Però uno sgabuzzino fa sempre comodo, anche per infilarci l’aspirapolvere»
«Quello sta in lavanderia. Si aggancia alla parete e si ricarica alla presa»
«Ma anche un posto dove buttare le cose quando all’ultimo minuto arrivano degli ospiti e devi fare ordine».
Filippo ride.
«Ma se il tuo sgabuzzino era l’angolo più curato di tutta la casa, con le scatole messe in ordine di altezza, i barattoli divisi per colore e i pannetti stirati».
Mariella sta zitta. È vero, c’è stato un tempo in cui lo sgabuzzino era il suo regno. Ricorda le ore passate lì dentro, a mettere in fila i detersivi sullo scaffale più in alto, a piegare i panni in microfibra e a sistemarli per colore dentro una scatola, in modo che prendendone uno non volassero fuori tutti gli altri. Ricorda la lampadina che penzolava sopra la sua testa e lei che la guardava oscillare contando i secondi, i minuti, ogni respiro. Aspettava. Aspettava che fuori finissero le urla. Aspettava che lui la smettesse di inveire contro la televisione per un gol mancato, o contro di lei per una birra troppo calda, degli spaghetti troppo freddi, un vetro troppo sporco, una camicia stirata male.
I bambini si rifugiavano in camera, da ragazzi uscivano sbattendo la porta, e lei rimaneva lì, a contare le conserve, a separare i barattoli di ceci da quelli di fagioli, a controllare le date di scadenza sulle confezioni dei pelati fino a quando i rumori non cessavano. La televisione si spegneva, lo sciacquone veniva tirato. Solo allora Mariella apriva la porta e si ritrovava sola nel buio della casa. Usciva di soppiatto dallo sgabuzzino, si toglieva le ciabatte e così, scalza, illuminata solo dalla luce di quella lampadina sghemba, metteva i piatti in lavastoviglie, delicatamente, senza far rumore. Poi spazzava, puliva il tavolo, piegava la coperta e la poggiava sul bracciolo del divano.
Cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato lo sgabuzzino? Quale sarebbe stato il suo posto?
«Mamma, non ti vedo convinta»
«L’importante è che piaccia a te»
«Ti faccio vedere la camera da letto. C’è anche la stanza guardaroba»
«Ma qui c’entra l’armadio?»
«Non c’è bisogno dell’armadio. È questa stanza l’armadio. Devo solo metterci degli scaffali».
E lo sporco? La polvere? Il cambio stagione? Mariella vorrebbe ribattere ma si sente troppo stanca, troppo vecchia. Guarda Filippo e annuisce come se avesse capito.
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