di Emanuela Cocco
A un certo punto lei dice che ha un figlio, che il figlio ha bisogno di lei.
«Erano tanto bene assortiti.»
Forse è così, ma lei è povera e ha i capelli ricci. Lui è un chirurgo, lei ha il figlio malato, lui è il figlio di Alain Delon, sul serio, ma non ha più le sopracciglia così folte come quando ha fatto quella roba sulla morte annunciata, allora era giovanissimo, ma ora no e ha il volto tirato.
È sabato sera e ho, quasi, quello che merito: uno di quei gialli estivi, quelli del sabato su Rai Due, quelli di “Nel segno del giallo”, e questo mi va benissimo, e una certa Laura del piano di sopra seduta accanto a me sul divano, di cui non ho colpa.
Laura l’ho incontrata appena prima di entrare. Le ho detto al volo, ma sorridendo: «come va?». Mi ha seguita dentro. Ho acceso la tv e il telegiornale era già cominciato. Ora, mentre parla, siamo a metà del film.
Laura è in crisi perché: tutto l’inverno invochiamo primavera e in primavera invochiamo l’estate e d’estate vogliamo indossare il piumino, direbbe William Butler Yeats; quindi è tutto regolare, a parte un acufene di cui mi ha appena spiegato la portata tragica.
E poi, me lo ha rivelato durante l’intervallo televisivo affastellato di crema naturale novi ad alta spalmabilità e gusto intenso ed Enel sostenibile, non ha più voglia di vivere: le manca qualcosa che non sa bene cosa e la cosa, che le manca e la tormenta, è assente e presente e molte altre anti-cose – la sua descrizione somiglia alle note di scena di una performance site-specific di teatro indipendente – e la sta uccidendo. Se non fossi arrivata io, chissà che cosa sarebbe successo.
«Si calmi.»
Non ho cenato, non ho neanche il gelato, da qualche parte in una commedia americana c’è qualcuna che mi somiglia e ha in mano un barattolino di crema e cioccolato da ingerire a cucchiaiate, tra un pianto e l’altro, sotto una pioggia battente di musica extradiegetica capace di rendere il tutto degno di nota. La invidio.
Io non sono affranta, ho solo questo desiderio frustrato di morte in vita sul divano, davanti a Rai Due, che è una morte temporanea e meravigliosa, e voglio ascoltare questi meravigliosi dialoghi scritti male, seguire la rassicurante routine della trama in cui lui è un assassino, o almeno lei se ne sta convincendo, mentre cerca di farlo scagionare da un’accusa di omicidio, perché lo ama e anche lui la ama, ma forse la farà precipitare da una rupe.
«Tu sei una lurida stronzetta.»
Laura mi chiede come faccio a guardare questa robaccia, ma dallo schermo si affaccia il volto della suocera della protagonista. La riconosco, è quella che in Profondo rosso era la sensitiva, ma quanto tempo è passato, anche sopra le facce nello schermo, sulle facce della sensitiva e di Antony, ecco come si chiama, è passato il tempo, anni di produzioni cinematografiche mediocri, anni di: che schifo di copione ma lo faccio, e ora loro hanno questa espressione un po’ delusa, e non riescono a nasconderla, neanche quando stanno per far fuori qualcuno.
«Lei è una piccola intrigante proletaria.»
Lineamenti scolpiti dal disinganno, o dagli psicofarmaci, chi può dirlo, ma forse è solo una mia idea, e mentre continuo a guardare nello schermo l’amica della protagonista, un personaggio da poco, una tinca, che istiga al divorzio, e ascolto resoconti di soldi rubati e gioielli contraffatti, dopo che Laura mi ha ripetuto una domanda che la strazia, che però vai a capire di cosa si trattava, la vedo alzarsi in piedi e dirigersi verso il balcone.
Apre la porta finestra.
Appena un frame, di spalle, e scompare. Ma non la seguo, no. E non vado in primo piano. E la musica non si alza, a coprire le voci doppiate, le voci inceppate, forse per l’imbarazzo di recitare quel copione, o per la preoccupazione di dire bene la frasetta tradotta, che suona male come la dici la dici.
Le voci restano, senza muovere un passo.
“Lo so che sei sconvolta, ma l’importante è stare insieme.”
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