Tra gli anni 2006 e 2008 ho guardato Manhattan talmente tante volte, salvo poi smettere per quasi per una decade, che ci sono un’intera gamma di azioni e pensieri che a quel periodo hanno fatto seguito (amori, disamori, nevrastenie, ambizioni) che sono riconducibili senza dubbio alcuno all’influenza che quel film ha avuto sul mio cervello.
Tornando al cinema a vederne la versione restaurata, mi sforzavo di non vestirmi come si sarebbe vestito Isaac, il protagonista del film scritto, diretto e interpretato da Allen.
Poi, guardandomi nello specchio il risultato, non potevo che riconoscervi un omaggio: Clarks scamosciate nere, pantaloni verdi e giacca militare verde, con una t-shirt quicksilver dove una texture anni settanta strizzava l’occhio all’LSD e alla California, senza sapere bene di cosa si stesse parlando. Va bene caro mio, mi sono detto, forse che tu lo voglia o meno, questo film continua a esercitare su di te grande influenza.
Invece, guardando il film, a differenza di quanto mi sarei aspettato, mi sembrava che fosse cambiato tutto. La pellicola mi parlava e mi diceva cose tutte diverse rispetto a un tempo. Certo, sapevo ancora le battute a memoria, intere sequenze di frasi prima che fossero pronunciate, ma ciò che era cambiato era la visione d’insieme.
All’epoca della fissazione facevo risiedere il messaggio portante del film in quella frase (frase che io definivo vagamente aristotelica) pronunciata da Mariel Hemingway a metà del film:
Forse (sto parafrasando) semplicemente siamo fatti per avere relazioni diverse, di durate diverse.
Una frase semplice semplice, ma rivoluzionaria, a mio modo di vedere le cose dieci anni fa. Talmente importante che sarebbe dovuta esser segnata nei libri di storia. Oggi quella frase mi sembra poco importante e ovvia nella sua verità.
Tornando verso casa con Diana, che pure aveva amato e subito il film in epoche di cui non sapevo niente di lei, mi diceva: «Sai all’epoca in cui vidi il film, vivevo l’arrivo del personaggio di Diane Keaton come una sorta di epifania. Pensavo che era un personaggio perfetto. Oggi invece mi sembra che sia la ragazzina quella che ha veramente qualcosa da dire»
«È vero Diana», le dicevo, perso in altri circoli di pensieri.
«Ma che ne è stato di Mariel Hemingway? Quali altri film ha girato?» mi domandava.
Io guardando le vetrine e i palazzi in bianco e nero della nostra città le rispondevo che Mariel era morta giovane, che aveva girato pochissimi altri film dopo quello, e poi era avvenuta la tragica scomparsa. Diana si accigliava e tornavamo così nel nostro appartamento in pieno centro arredato con feticci e omaggi ai film del passato.
Poi la sera dopo, mentre preparavo la cena, Diane mi diceva: «Ma ti ricordi cosa ho detto stamattina?»
«Che cosa hai detto? No»
«Ti ho detto che Mariel Hemingway non è morta. È viva»
«Ma che stia dicendo? È morta. Morta giovane»
«Mentre te lo dicevo stamani, che eri ancora nel dormiveglia, facevi: no, no»
«A parte che non è morta, ma stamani non mi dicevi proprio niente, ero sveglio»
E allora lei mi diceva: «Guarda, guarda qui, com’è oggi, com’è diventata. Solo che non è più bella»
Io guardavo quelle foto sul cellulare di Diane e dicevo:
«Mah, mi sembra stranissimo che non sia morta. Sono sicuro di aver letto la notizia da qualche parte. Di aver controllato. Era morta suicida o aveva avuto dei problemi con la droga»
E lei insisteva: «Guarda che ti sbagli, è viva. Solo che è diventata brutta»
«Brutta, non direi»
«Ma sì è brutta, guarda che viso»
«No, no» insistevo io, ma senza guardare davvero sul tuo telefono, «non è affatto brutta»
A dieci anni di distanza da quando vidi per la prima volta Manhattan, sto con una ragazza di nome Diana, e dubito del fatto che Mariel Hemingway sia viva.
Bene. Tutto a posto.
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