di Michael Andreas
Ci stacchiamo e piombiamo di schiena sul materasso, ansimanti e bagnati, uno accanto all’altra. Sto ancora vibrando per l’orgasmo, il calore dall’inguine si è diffuso in tutto il corpo, un’unica brace che fra poco si spegnerà.
Lei si accende una siga e me ne passa un’altra. Piegandomi, avvicino la punta alla sua scintilla, i nostri fiati si ritrovano attraverso le ceneri e allontanano il freddo ancora per qualche minuto. Stiamo lì distesi, il fumo sale lento a dipingere il soffitto, lo inseguo con gli occhi.
«Cosa faresti se morissi?» mi chiede.
Mi gelo di colpo, una gabbia di ghiaccio mi impedisce di fluire, provo a perdermi, almeno con le pupille. Inspiro una lunga boccata e si apre uno squarcio sopra di me. La visione mi investe.
Estate. Tardo pomeriggio. I miei capelli sembrano alghe bruciate, calano giù lungo tutta la maglietta bianca, impregnata di salsedine.
Sono seduto su una sedia di plastica a un tavolino. Dall’interno del bar arriva James Taylor in sottofondo e mi sento a casa. Sto mangiando col cucchiaino uno di quei gelati confezionati del cazzo che racchiudono una loro inspiegabile magia, permettendo per un istante quasi di percepire un senso, come se potessimo sfiorare il velo con le dita senza riuscire a sollevarlo.
Davanti a me il mare è una pozza immensa di oro fuso. Ricordo un momento come questo, quando nuotavamo abbracciati, ci staccavamo e stavamo ammollo poco distanti, immersi nello stesso liquido dorato. Ricordo l’incavo umido delle mie mani, oltre il quale guardavo il tuo viso sorridere davanti alle fiamme accecanti del sole sull’acqua, un piccolo fiore su piccole stelle. Non vedevo nient’altro, solo te nel fuoco e noi due tra le onde. Ti ricordi, la spiaggia era vuota e mi facevi una sega.
Finisco il gelato e provo a rollarmi un drum ma è tutto inutile. La cartina si spezza, il filtro sparisce, i fili di tabacco caduti sulla maglietta iniziano a muoversi, diventano vermi che mi strisciano addosso. Forse mi sto decomponendo, li scosto via col dorso della mano e li spingo giù di sotto, con l’infradito.
Passa di qua un vecchio e gli scrocco una sigaretta. Mi allunga una Marlboro Gold e come l’accendo mi cade una lacrima. Ti ricordi? Il marlborino gold dopo il sesso, la paglia perfetta per quel momento, mai in altre occasioni, quel piccolo strano lusso che ci faceva sentire in un hotel a cinque stelle. Avevamo il pacchettino apposta con su scritto con la biro Cigarettes after sex, dio mio che tenerezza. Cazzo, c’erano ancora i pacchetti da dieci, ti ricordi? Sembra così assurdo, eravamo ragazzini davvero, tu eri una piccola goth e io un piccolo freak, entrambi fuori luogo e fuori tempo.
Passavamo nottate in giro e giornate sul letto, e tra i joint ci arrotolavamo come cartine piene, tra La canzone del parco e quella del riformatorio. E io amavo come mi succhiavi il cazzo, me lo prendevi in bocca ancora moscio e mi coccolavi le palle mentre mi indurivo avvolto dalla tua saliva, e non ti fermavi finché non esplodevo e a te era colato tutto il mascara.
E ti ricordi quel trip, quando era a me che colava la matita e tu dicevi che sembrava fossi uscito dal teatro kabuki e non smettevamo più di ridere mentre la stanza si deformava e Bowie cantava Ashes to ashes. E quando prendevamo l’MD e quel sesso elettrico era la cosa più bella del mondo, mentre tutt’attorno i temporali scoppiavano e Where is my mind risuonava sui finestrini dei treni e ci sentivamo così punk, con le toppe sulle giacche e le scarpe da teknusi. E volevano separarci ma ci siamo tenuti stretti, e stavamo per affogare nella cenere ma ci siamo rialzati. Ti ricordi cazzo, quell’estate a vendere il fumello dei boschi per fare i soldi da spendere ad Amsterdam in ganja buona.
Come sul mio salvaschermo, eravamo io e te sulla collina a guardare la città venire distrutta dagli ufo. Eravamo Boo e Gatto, Lilo e Stitch, Undici e Mike e già sognavo quando saremmo cresciuti e avrei potuto cantarti Our house accendendo il fuoco nella nostra casetta.
Ora vorrei farti sentire tutti questi gruppi che ho scoperto grazie all’algoritmo di Youtube, l’unico che ormai mi capisce così a fondo. Se solo li avessi trovati prima, anche loro farebbero parte di noi.
Spengo la siga nella coppa oro e mi alzo in piedi. Scendo i gradini che mi separano dalla spiaggia e lascio le ciabatte vicino al cestino. Immergo i piedi nella sabbia e lentamente cammino in avanti, i raggi gialli mi fendono come lame gassose.
Non c’è nessuno sul bagnasciuga, solo un giovane ambulante. Siede sulla sua merce accatastata a mo’ di relitto e si fuma un cilum guardando la schiuma che sale. Mi porge il lotto e riempio i polmoni di questo dolce fuoco, mentre l’acqua mi tocca le caviglie e sommerge i piedi. Gli ripasso il braciere fumante e levo la maglietta, la lascio cadere lì, sulla sabbia.
Aspetto una frase saggia da parte sua ma tace, allora gli dico, e spero che mi ascolti: «Fra’, guardati Made in Hong Kong, assolutamente, quel film ha capito tutto».
Mi butto in mare, faccio ampie bracciate nel metallo luccicante, sono gli ultimi minuti, poi l’arancione investirà tutto quanto e dopo di lui il nero.
Mentre nuoto penso che forse io una cosa di tutto ‘sto puttanaio l’ho capita. Non mi ricordo chi era che aveva detto quella frase, tipo che noi umani siamo come formiche sul ciglio della strada; possiamo espandere e ammodernare il nostro formicaio quanto vogliamo ma non saremo mai in grado di afferrare cosa sia quella lunga striscia di asfalto. Ecco, chiunque fosse, aveva ragione: è precisamente così e non c’è un cazzo da fare.
Spingo la testa tra i flutti, sventro le onde e sono acqua anch’io. Arrivo al largo e mi fermo. Galleggio sulla schiena, tutt’attorno è l’oro che mi aspetta per andarsene assieme.
Mi tocco la tasca del costume ed è ancora lì. Tiro fuori il taglierino, guardo la piccola lama uscire contro il sole. La porto al braccio ed è un istante, le vene si aprono e il sangue esce, non sento neanche il sale. L’ultimo raggio, finalmente anch’io sarò vuoto, diventerò tutt’uno con la luce e con il mare e forse anche con te.
Spengo la siga nel posacenere affianco al letto e un brivido mi percorre la schiena. Mi concedo la più doverosa grattata di palle della storia, il cui sollievo ristoratore è già leggenda.
Mi giro. Lei è accanto a me, i suoi occhi mi guardano, ancora interrogativi. Le accarezzo una guancia. Stringo nella mano la sua nuca, rasata, e le do un bacio.
Mi tiro su a sedere «Dai, amò, basta pensare a ‘ste cose. Famo su una canna».
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