Lo scorso venerdì sera ho visto il mio amico in un film.
In altre epoche il venerdì sera sarebbe stato riservato a un certo tipo di intrattenimento, un intrattenimento potremmo dire impegnativo, per quanto possa essere impegnativo assumere dosi massicce di sostanze sorprendenti, sperimentare senza sosta nuove marche di sigarette e riprendere i sensi su superfici appiccicose mentre qualcuno dall’aria indifferente ti lava la faccia con uno straccio.
Ora che vivo in un quartiere residenziale (sebbene in subaffitto) e possiedo un lavoro vero (sebbene precario) il venerdì sera è stato retrocesso a flaccido interregno tra l’oscurità dei giorni feriali e la luccicante nonché inevitabilmente deludente attrattiva del fine settimana, cosa che ha comportato un drastico processo di revisione delle attività dedicate. Le ore spese a rimbalzare da un angolo all’altro di una piazza qualsiasi, nell’attesa gravida e disperata che qualcuno o qualcosa arrivasse a strapparci da quell’onanismo collettivo e alla fine dei conti socialmente compatibile al solo scopo di sentirne in seguito la mancanza, sono state sostituite da una pratica più simile all’erotismo taoista, in un parallelo secondo cui il jīng, l’essenza vitale preservata dagli adepti tramite la conservazione dei fluidi corporei, corrisponde alle ore di dissipazione generosamente donate al riposo, o ancora meglio, alle eventuali pratiche utilitarie da svolgersi la mattina successiva.
In sintesi: il venerdì sera vado al cinema.
Lo scorso venerdì sera, dicevo, ho visto il mio amico in un film.
Era il film di un regista che in qualche modo seguo, definiamolo un buon conoscente, azzardiamo una stima reciproca. Basata su cosa?
Era un film, quello che ho visto, di cui si discuteva da quando il regista che più o meno conosco ne stava girando un altro, o forse da prima ancora, quando aveva un titolo più lungo e trattava temi leggermente diversi, sebbene simili.
Era un film che il programmatore del cinema ha definito una commedia dolceamara. “Posso dire che il tuo film è una commedia dolceamara?”, ha buttato lì durante la presentazione, e io ho pensato ecco, adesso il regista, che è circa il doppio di lui, gli dice no, non puoi dirlo, ma come ti viene in mente, pazzo! e lo colpisce con l’asta del microfono ma non forte, e mentre il pubblico chiama le forze dell’ordine loro sghignazzano come pazzi, ma poi alla fine non è successo niente. Commedia dolceamara, bene.
Era una commedia dolceamara, dunque, che aggettivo impossibile, eppure esiste davvero; e nonostante questo gli attori erano bravi e pronunciavano frasi che potrebbero esistere anche fuori da un film. La storia è quella di una coppia che si lascia per i motivi per cui si lasciano le coppie, e di altre coppie che non si lasciano sebbene potrebbero, o forse dovrebbero anche. C’è, in particolare, una scena molto divertente tra la madre del protagonista, una nota attrice teatrale che ovviamente non conoscevo, e il protagonista stesso; poi un noto cantautore interpreta una canzone scritta appositamente; in seguito, appare il mio amico.
Il mio amico, nel film è medico. Il mio amico, nella realtà è medico.
Il mio amico, nel film risiede a Roma. Il mio amico, nella realtà non risiede a Roma.
Il mio amico, nel film non è mio amico. Il mio amico, è mio amico in realtà?
Nel film, il mio amico compare e scompare nel giro di pochi secondi. Pronuncia una battuta, fa un gesto con la mano, cambio di scena. Nella realtà, è andata più o meno alla stessa maniera. Ma non va sempre così poi?
C’è stata un’epoca, come per l’intrattenimento del venerdì sera, in cui le nostre frequentazioni erano attive. Studiavamo entrambi all’università, bazzicavamo le stesse persone. Eravamo, di questo ho certezza, amici davvero. Poi il tempo è passato, e con esso le consuetudini.
Ultimamente il mio amico non lo vedo mai, mi informo però sulla sua salute con cadenza regolare.
Che fosse nel film non lo sapevo, o forse sì ma l’avevo scordato.
Adesso che ho visto il mio amico nel film, che cosa dovrei fare, mi chiedo, che si fa in questi casi? Dovrei inviargli un messaggio, comunicargli che ho assistito alla proiezione, proporre una rimpatriata che si rivelerà a tal punto esaltante da prendere per il collo i nostri sonnolenti rapporti e rilanciarli in un lampo in direzione iperuranio?
Nel momento in cui il mio amico entra in scena, per il tempo brevissimo in cui rimane sullo schermo, contengo il desiderio di saltare in piedi indicandolo, di mettermi a urlare, di far partire un applauso. Ma la realtà è che sono solo io a vederlo, mentre per lui rimango invisibile. Il mio amico, nel film, è distante anni luce, irrecuperabile, estraneo, forse in effetti non è neppure lui.
Se ci rifletto, tra l’altro, lo ricordavo più alto. E i capelli – dopo anni – non dovrebbero essere bianchi?
Il mio amico, inoltre, svolge un lavoro di responsabilità, e non credo abbia il tempo di partecipare a un film. Ma se anche lo avesse, poniamo il remoto caso, scommetto che non ignora le ricadute professionali. Immagino i pazienti in fila, la voce che si diffonde, come in certi film sulle epidemie in Centrafrica. Lo scontento dell’Ordine, l’invidia dei colleghi, due lustri di studi al vento, la vergogna della famiglia. È forse, il mio amico, a tal punto sconsiderato?
No, questa ipotesi è senza dubbio da scartarsi.
Terminato il film controllo i titoli di coda. Come prevedibile, trovo il nome del mio amico.
È piuttosto improbabile, ma potrebbe trattarsi di omonimia. Una singolare affinità fisica unita a un’ancor più singolare corrispondenza anagrafica.
Penso che questo è addirittura meglio come pretesto per inviargli un messaggio. “Ho visto un film con uno uguale a te che, tieniti forte, si chiama come te”.
Lo scrivo, e poi mi accorgo che non ho il numero del mio amico.
Lo avrò perso senza farci caso, forse un cambio di telefono, forse una memoria difettosa.
c’est probablement le meilleur film que j’ai vu, très cool merci