Di Silvia Fornaroli
Gli uccelli hanno sporcato di nuovo mio padre.
Avevo lasciato delle briciole per terra e le rondini devono averne approfittato per banchettare.
“Colpi d’arma da fuoco. Cac-calibro 9×21” direbbe lui, che non si sarebbe perso un’occasione come questa per fare ironia.
È stato mio padre a spiegarmi come si tiene una pistola. Mi ha insegnato che la presa deve essere ferma, ma non serrata; la mano morbida, ma salda. Da adolescente ho imparato che mettere l’eyeliner, in fondo, richiede una concentrazione simile a quella che serve per impugnare una Glock. In entrambi i casi, il trucco è immaginare di stringere il corpo di un pettirosso: non va soffocato, ma bisogna essere abbastanza decisi per non lasciarlo volare via.
Avvengono tante cose in una 9 mm tra lo sgancio del cane e l’uscita del proiettile dalla canna, ma la maggior parte della gente le ignora. È certo, però, che dopo un paio d’ore passate a colpire sagome di cartone, l’odore che si stampa addosso è inconfondibile. Di ritorno dal poligono, avrei potuto chiudere gli occhi e pedinare mio padre solo con il naso.
«Quello che si sentirebbe da un benzinaio, se un cliente masochista si accendesse una sigaretta un po’ troppo vicino alle pompe», scherzava lui annusandosi le maniche della felpa.
Senza più passare dalle narici, la polvere da sparo si è pian piano annidata nei circuiti del mio cervello, pronta a detonare ogni volta che mi trovo a un appuntamento con un uomo, quando sono così fortunata da entrarci in intimità. Incastrato tra i miei capelli, lui aspetta insieme a me che il malcapitato indossi un preservativo.
“Se fosse una Smith & Wesson, si starebbe sparando da solo”, l’ho sentito sussurrarmi il mese scorso, prima di cambiare idea e rivestirmi.
La sua presenza vaga in sottofondo anche adesso mentre, con un secchio d’acqua e uno straccio di fianco, mi inginocchio a pulire. Mio padre sta osservando la scena in giacca e cravatta, bloccato tra le sbarre di una cornice di metallo.
«Non ricordo che nessuno gliel’abbia mai scattata» avevo detto subito a mia madre vedendo per la prima volta quella fotografia.
«Ci hanno pensato loro, infatti» aveva risposto lei. Al mio sguardo confuso, aveva mosso le dita mimando un paio di forbici. Aveva poi continuato definendolo un “collage”.
Mi erano venute in mente quelle scimmie truccate, ingabbiate in abiti di paillettes e obbligate a fare cose tipo andare in bicicletta o saltare in un cerchio infuocato.
Mia madre aveva dovuto tirarmi uno schiaffo dei suoi per farmi smettere di ridere. Quando il dito tira il grilletto, il percussore colpisce l’innesco e dà il via alla prima esplosione di energia. Anche la mia guancia, schiacciata dal palmo della sua mano, si era incendiata ed era rimasta calda per tutta la giornata.
Scherzava spesso sulla morte, mio padre. Nelle sue fantasie, se la figurava come una donna bella e poco vestita, seduta ad aspettarlo in una stazione di servizio. Per accoglierla meglio, aveva tappezzato l’abitacolo del suo camion con immagini di pornostar famose negli anni Novanta.
Moana Pozzi avrebbe fatto un frontale con il suo stesso culo, circondato da Led colorati e appiccicato in punti strategici del tettuccio.
L’anno in cui ho avuto bisogno del primo reggiseno, però, la maestra scrisse una lettera a mia madre. Non stava bene, sosteneva, che una ragazzina venisse a scuola scendendo da un mezzo del genere.
«Sei il mio corto circuito» aveva detto mio padre il giorno in cui anche i Led avevano smesso di funzionare.
È stato nel pomeriggio di qualche mese più tardi che l’odore mi aveva aggredito più violento del solito. Mi liberavo in fretta dello zaino, e i miei neuroni cominciavano a ricostruire il percorso che doveva aver fatto. Come nelle fiabe, dove ci si affida ai sassolini per trovare la strada persa, io seguivo le tracce lasciate da quel misto di gasolio, ruggine e fumo.
Mentre strofino il marmo, adesso, ho capito che mio padre ha scelto il bagno perché le superfici lisce sono più facili da pulire.
Succedono tante cose nel tempo che passa tra l’abbattimento del cane e quel bang liberatorio, e non c’è tempo per scomporle tutte. L’ultima fase dello sparo, però, è sempre quella più emozionante.
Il proiettile, entrato nella canna, sta per spiccare il volo finale. I grani di polvere sono ormai quasi tutti bruciati e i gas sprigionati dalla combustione saturano l’aria come un fuoco d’artificio esploso su un piccolo terrazzo. A terra, rimane un bossolo sporco,; la pistola, invece, di solito non si allontana dal corpo.
Avrei voluto parlarle e riempirla di domande ma, lontana dalle mani di mio padre, sembrava solo un’altra orfana.
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