Se mi chiedono cosa penso riguardo al nuovo adattamento dal romanzo di uno dei miei scrittori preferiti (precisazione: dal summenzionato autore sono stati tratti, nel tempo, diversi film quasi tutti brutti o bruttissimi, alcuni in categoria: inguardabili), rispondo che mi ha fatto pensare a Tiziano Ferro.
In che senso Tiziano Ferro?
Perché no?
Nel senso: solo perché c’è quel bambino grasso?
Allora spiego che in un’altra vita, sarà stato il 2015, sono stata a un concerto di Tiziano Ferro.
Tralasciando come ci sono arrivata (due biglietti in regalo a una coppia di amici, lui che diserta millantando altri impegni – mentiva, ora lo so –, io che in ultima analisi risulto l’unica sostituta possibile e dunque biglietto restituito al mittente insieme a un paio di considerazioni, senz’altro bonarie, su certe pressioni che avrei fatto per scegliere proprio quel genere di regalo, così soggetto a imprevisti, e in particolare esattamente quel concerto, forse più atteso da me che dalla coppia di cui sopra), la serata è stata bella.
Era una data del tour Lo stadio, che guarda caso si teneva allo stadio. Se il team marketing di Tiziano Ferro fosse stato giusto un filo più audace avrebbero potuto organizzarlo nei palasport, ai giardini pubblici o nei centri per anziani, ma niente.
L’estate era appena iniziata, e nel settore Prato girava gente di ogni tipo. Ragazzini coi capelli candeggiati e gli zainetti Eastpack, coppie giovani ma soprattutto meno giovani impegnate in limoni competitivi, tizi solitari dall’aria persa, famiglie brandizzate Decathlon buttate sui teli da pic-nic e anche un gruppetto di punkabbestia senza però i cani, ingiustamente discriminati all’ingresso e grandi assenti in questa immane gita scolastica tenuta insieme da un singolo fattore, che poi è forse IL topos della poetica ferresca (ferrosa? Ferrea?): un genuino entusiasmo di essere lì in quel momento.
Quando cala il sole inizia lo show, che è una cosa in stile yankee con cambi d’abito, corpi di ballo e set luci alti venti metri. Carrellata dei grandi successi, momenti di intimità col pubblico; è tutto molto entertaining finché di punto in bianco il palco si svuota e si accendono una dozzina di schermi formato titano.
Quello a cui circa quarantamila persone si trovano di fronte è una presentazione tipo Power Point con immagini del piccolo Tiziano Ferro in frangetta e bretelline, del giovane Tiziano Ferro al pranzo domenicale coi parenti, di Tiziano Ferro sognante conciato come un tamarro del basso Lazio, di Tiziano Ferro in forma smagliante dopo secoli di palestra e outfit Armani su misura. All around: la voce amabile ed estremamente rassicurante del nostro anfitrione che ringrazia il suo pubblico per averlo reso quello che è.
La cosa in sé potrebbe anche essere rivoltante, ma l’estetica da slideshow della cresima (sorvolando sugli schermi alti come palazzi) e il tipico feel emozionale ma onesto del golden boy di Latina rendono il tutto, nel complesso, gradevole. Le persone applaudono, sembrano compiaciute come se il tizio là sopra fosse quel cuginetto talentuoso ma sfortunato a cui per anni hanno sovvenzionato gli studi. Poi, corredato di sottotitoli, arriva il finale:
In amore vince chi fugge…
IO NO.
Lo stadio si solleva.
C’è chi piange, chi abbraccia il vicino, e nell’overall senso di commozione ho il tempo di domandarmi se si stia riferendo al fuggire o al vincere.
Ok. Quindi che c’entra Tiziano Ferro? Per la transizione vita da obeso mortificato (gesto delle mani a tracciare una freccia nell’aria) Olimpo dello stardom o comunque contesto preferibile (gesto delle mani a tracciare delle virgolette nell’aria) tutto grazie a voi fantastici amici?
Forse, però non è solo questo. Ma non saprei spiegarlo meglio di così.
Comunque alla fine ti è piaciuto o no?
Il film o Tiziano Ferro?
Tiziano Ferro: sì.
Il film: se lo si guarda tenendo il libro come termine di paragone, sarà un po’ come mangiare la pizza con l’ananas. Presente la pizza con l’ananas?
Soffermandosi sul concetto di pizza si finirà per schifarla, per pronunciare slogan reazionari tipo “questa porcheria non può dirsi pizza!” o “solo una civiltà strutturalmente inferiore può produrre un abominio del genere”.
Se invece la si assaggerà trascendendo l’oggetto pizza, scuotendosi dalle pastoie dell’eurocentrismo per arrivare a concepirla come cosa in sé, ecco che non sarà più tanto male. Anzi, sarà più che ok.
Sarà buona, dipende dal cotto.
Sapevate che la pizza con l’ananas deve il suo inconfondibile gusto quasi interamente al prosciutto cotto?
No?
Invece è proprio così.
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