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Le otto montagne | Forst Premium

6 Febbraio 2023 di Leonardo Biancanelli

 

 

 

Fuori non diventava mai scuro. 

Erano le dieci di sera quando un gruppetto di giovani lo superò e si diresse verso il fiume, mentre lui stava appoggiato alla parete di legno, a qualche metro dalla porta del locale; non voleva buttare via una buona metà della sigaretta che si era acceso poco prima. 

Osservò il gruppetto mentre spariva dietro i binari della ferrovia e poi spostò lo sguardo sulla strada principale, in particolare sull’asfalto perfetto che avevano risteso in quei giorni, e la vista di quel nero assoluto lo spinse verso il vuoto del proprio pensiero, in cui le coordinate si confondevano. Sentì il bisogno di guardare il cielo, luminoso e azzurro. 

Non diventava scuro nonostante fossero le dieci passate; pensava che sarebbero potute anche essere le tre di pomeriggio, e alle tre di pomeriggio che il cielo sarebbe sembrato comunque quello delle tre di pomeriggio. 

Quando entrò nel locale, fu accolto da una luce rossastra che si diffondeva dai copri lampade, e l’atmosfera notturna veniva simulata con successo grazie a delle spesse tende oscuranti che coprivano le vetrate sulla strada, facendo sprofondare i clienti in una penombra artificiale. 

Sulla parete dietro il bancone era affisso il ritratto di Keish – o come lo chiamavano tutti Skookum Jim: anche lui, se stava lì e riusciva a guadagnare bene, era per merito suo, di Skookum Jim; in fondo se tutti stavano lì, pensò, era per merito suo; la sua fotografia appesa si poteva intendere come un omaggio, l’equivalente di un crocifisso per i fedeli dell’oro, che nessuno guardava con attenzione, ma che intuivano essere l’origine di tutto.

Il proprietario del locale ormai lo salutava chiamandolo per nome. Quella sera gli disse che aveva voluto fargli un regalo e aveva ordinato una decina di casse di una lager italiana che si ricordava di aver bevuto quando era stato in vacanza sulle Dolomiti. 

Lui lo ringraziò, un poco in imbarazzo, e prese in mano la bottiglia sorridendo, cercando allo stesso tempo di non far trapelare il senso di smarrimento che un gesto simile gli aveva provocato. 

La bottiglia, alla quale per almeno un minuto non aveva nemmeno dato un’occhiata, si era infine scritta nella sua retina dove erano comparse prima le lettere verdi del marchio, FORST, e poi la scritta rossa PREMIUM, a caratteri più piccoli al di sotto del marchio. La strinse con un certo timore, come se stesse toccando una reliquia che aveva chiuso in una teca rischiarata soltanto da brevi capitoli di luce, rari nel tempo, aperti e chiusi troppo velocemente per diventare fondamenta di una mitologia privata. E così il ricordo più dolce fu capace di innestarsi su quel fortuito nodo di realtà e di nutrirsi delle corrispondenze, di particelle comuni agli eventi: minimi comuni denominatori sparpagliati nel mondo, che punteggiavano il magma del tempo, e che apparivano agli mnemonauti soltanto in brevi occasioni, in momenti di sintesi come era stato quello, per lui; allora si era appoggiato allo schienale e aveva disteso le gambe, si era portato il ricciolo di vetro smussato alla bocca e aveva bevuto il primo sorso.

Un fiume di risate, grassissime: un bambino ubriaco che vede di fronte a sé il suo amico, felice, ridere a crepapelle, e non ancora una pancia gonfia piena di orrendi ribollimenti, un esofago bruciato e tagliuzzato da piccoli brandelli di carne non digerita e patatine aguzze non ridotte a bolo. Non si materializzavano ancora i peccati, e le lacrime non scorrevano insieme al piscio sotto le suole delle scarpe, in mille direzioni non scolavano sull’asfalto bagnato. La linea spezzata del sorriso sghembo del mondo li divideva dal cielo azzurro e loro ridevano di tutto, in particolare dei volti dei genitori e di quelli dei passanti, e delle forme degli abeti e dei monti, ridevano e facevano smorfie nonostante avessero ancora una buona metà dei boccali della prima birra della loro minuscola vita da svuotare. FORRRRRST bisbigliavano, leggendo le lettere verdi impresse sul boccale, e scoppiavano a ridere. FORSRRSRTTT facevano, mimando una pernacchia. Alla fine del boccale, erano corsi nel bosco e ognuno si era preso il proprio albero per ripararsi dagli sguardi. 

E quella era stata la prima grande pisciata al cospetto di un colosso di dolomia che rideva, rideva a crepapelle di due bambini ubriachi.

La seconda era stata verso i vent’anni, a notte fonda. Ricordava di aver patito un grande freddo, un freddo preistorico che gli aveva procurato un mal di testa e lo aveva condotto al delirio. A un certo punto non riusciva più a tenerla, e allora aveva deciso di infilarsi di nuovo i pantaloni e il maglione fradicio, calze e scarponi, e uscire dal bivacco. Quando aveva aperto la porta di ferro, aveva visto la V della Valle di Zocca ancora nera, completamente buia, ma il cielo era rosso porpora. Ricordò di aver pensato che era capitato all’interno di un segreto, e che probabilmente quella volta infuocata contenesse il passato e il futuro che di tanto in tanto venivano fuori per respirare; aveva potuto vedere tutto quello mentre si pisciava addosso, ma l’indomani sarebbe tornato a fare la solita vita. Aveva fatto fatica a riaddormentarsi, ma faceva troppo freddo per non accelerare le ore grazie al sonno.

Tornato in sé, guardò la bottiglia di Forst ormai vuota nella sua mano. Gli parve che la birra italiana fosse l’argomento principale delle conversazioni attorno a lui. Così vedeva i sorrisi della gente, gli occhi sgranati, come in estasi; li sentiva bisbigliare parole sublimi, quasi slogan pubblicitari. Qualcuno disse che gli aveva cambiato la vita. Si rigirò la Forst tra le dita e sul retro dell’etichetta vide le Tre Cime di Lavaredo stampate su quella particolare carta stagnola che si usa per etichettare una birra. Sotto, la didascalia, Tre Cime di Lavaredo.

Gli salì uno strano senso di nausea e decise di aprire un poco la tenda per guardare fuori.

La tenda faceva il proprio lavoro egregiamente; anche un breve spiraglio come quello che aveva aperto bastò per inondare il locale con il sole delle undici di una sera di metà luglio. Gli altri clienti si interruppero e lo guardarono come se li avesse scoperti, come se avesse scoperchiato un vaso di pandora e fatto uscire tutti i mali del mondo, amplificati dai cambi di luce che arrivavano dal fuori e che soggiacevano alle velocità doppie, triple, della strada: dei rimorchi dei camion, delle auto, degli arti oscillanti dei pedoni sul marciapiede, dei nembi immensi e burrosi spostati da un vento fresco dalle montagne. 

Lui sorrise e si scusò, ma non richiuse la tenda. Poi si alzò, buttò il vuoto nel cestino, ringraziò il proprietario dicendo che quella era la sua birra preferita, e uscì dal locale. 

Fece una breve passeggiata verso il fiume, nella direzione in cui era andato il gruppetto di giovani. Oltrepassò i binari della ferrovia e si avvicinò all’argine. 

Non riuscì più a tenerla e allora pisciò a lungo, guardando la grossa montagna di fronte a sé.

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Postato in: La sindrome del personaggio secondario, Sono figo solo io Tag: alessandro borghi, Dawson City, Forst, luca marinelli, Otto montagne, pisciare Fai un commento

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