«Ecco che per l’Italia si prepara la concorrente più giovane della squadra, pensate, ha solo sei anni».
La palazzina in cui abitavamo aveva un cortile asfaltato che circondava l’edificio. Io ero l’unica bambina del condominio e giocavo sempre da sola. Non soffrivo di solitudine, ero troppo timida e impacciata per sentire la mancanza dei coetanei. Mi piaceva andare in bicicletta in quel cortile asfaltato. Trascorrevo interi pomeriggi a pedalare, ma non andavo veloce, non ero spericolata, mi avevano inculcato che sudare era il male, sudando mi sarei ammalata e ammalandomi sarebbe successo qualcosa di tremendo, apocalittico, una catastrofe, così pedalavo con giudizio e prudenza, senza esagerare. Avevo creato una sorta di percorso mentale del cortile – girare intorno a un tombino, passare a destra di una certa pietra, sfiorare la panchina, tagliare l’angolo del marciapiede – e mi imponevo di rispettare al centimetro il tracciato. Spingere sul rettilineo, rallentare nelle curve, tenere stretto il manubrio nei dislivelli; calcolavo ogni mossa, ogni oscillazione, ogni movimento per completare il percorso senza sbavature e incertezze. Avevo sei anni e la mia ossessione era il giro perfetto.
«Ecco che per l’Italia si prepara la concorrente più giovane della squadra, pensate, ha solo sei anni» (non ho specificato che la mia ambizione in ambito sportivo era vincere “Giochi senza frontiere”) «Ha già dato prova delle sue straordinarie abilità, vediamo se oggi ci regalerà il suo famoso giro perfetto, quel giro perfetto che consegnerà la vittoria all’Italia» (applausi e grida di incitamento).
Attention. Trois deux un beee.
Ho visto Le Mans ’66 tre settimane fa. Pur di non scrivere un racconto ho riordinato la libreria (ordine alfabetico, di edizione, per colore, per dimensione), stirato le tovaglie buone (che userò due o tre volte in un anno), catalogato la collezione di schede telefoniche dal 1996 al 2002, ottimizzato la ricetta perfetta per il plumcake. Questioni urgenti e indispensabili.
Mio marito Lorenzo sa tutto di automobili. Sa tutto di moto, motori, biciclette, ruote dentate, meccanica in generale. Sa tutto dei piloti, soprattutto di quelli morti. Sapeva tutte queste cose prima che diventassero mainstream, come dice lui, e prima che fossero trasformate in motti e aforismi privi di contesto da lanciare sui social network senza citare le fonti. Lorenzo racconta dei piloti e delle gare e delle macchine con leggerezza e minuzia di dettagli, semina le immagini negli occhi, e anche se non te ne importa niente dei piloti e delle gare e delle macchine, anche se non stai ascoltando con attenzione, anche se stai pensando a cosa devi fare il giorno dopo o cosa devi comprare al supermercato, ecco che le immagini fioriscono nella retina e in un attimo è primavera. Che tu lo voglia o no.
E senza che tu te ne accorga quelle immagini si insidiano in qualche angolo della memoria e si nascondono, si raggomitolano, si acquattano fino a quando un giorno, inaspettatamente ti esce dalla bocca, come un rigurgito, che sì, tu sai chi è Nino Vaccarella, detto il Preside volante perché pilota e preside di una scuola, sai che vinse Le Mans nel 1964, con la Ferrari, e che subito dopo andò all’aeroporto, senza nemmeno festeggiare la vittoria, perché il lunedì mattina doveva essere a scuola, a Palermo, e che quando arrivò gli alunni si sbracciavano dalle finestre per acclamarlo.
Oppure sai che nel 1951 Piero Taruffi vinse la Carrera Panamericana (anche se non sai esattamente cosa sia la Carrera Panamaricana) e i messicani iniziarono a idolatrarlo – tanto che i tassisti tenevano sul cruscotto la sua foto accanto a quella della Vergine di Guadalupe, per dire – e coniarono in suo onore il verbo tarufear che si traduceva in “guidare molto veloce”.
O ancora, sai che Graham Hill è l’unico pilota ad aver vinto la Triple Crown, ovvero è l’unico pilota che nella carriera ha vinto le tre gare più importanti: il Gran Premio di Monaco, la 500 Miglia di Indianapolis e la 24 Ore di Le Mans, anche se ci sono scuole di pensiero diverse sulle gare da vincere, ma comunque lui le ha vinte tutte ed è l’unico, non si sbaglia.
Lo sai. Non sai come, quando e perché, ma lo sai.
E lo dici con un piglio saccente, quasi arrogante, accompagnando le parole con ampi gesti delle mani, anche se sono aneddoti ridicoli per gli appassionati e di dubbio interesse per gli estranei ai motori.
Prima di conoscere Lorenzo non sapevo niente di automobili e di tutto il resto. Adesso non so ancora niente, ma due o tre cose le ho imparate, sono fiorite. Mi piacciono le persone e le loro storie, spesso avvincenti, spesso struggenti, quasi sempre amare. Mi piacciono le strategie delle scuderie dietro le corse, le corse vere e proprie le gestisco peggio. Della meccanica non capisco niente ma ascolto e annuisco strizzando un po’ gli occhi come se mi stessi concentrando. Mi piacciono le riviste di meccanica. La morte mi fa paura.
Ho visto Le Mans ’66 tre settimane fa. Dopo aver visto il film sono tornata a casa e cercato tutto quello che c’era su Ken Miles. L’ho fatto di nascosto, senza dirlo a mio marito. Gli ho anche mentito quando mi ha chiesto «cosa stai guardando». Il motore di ricerca provava a suggerirmi altre parole, i banner personalizzati sono impazziti, Google sta ancora cercando di riclassificare i miei interessi.
Ho chiesto a mio marito di scrivere un racconto al posto mio. È andato verso la libreria e ha sfilato quattro volumi. La libreria di mio marito è la summa di tutto quello che c’è da sapere su automobilismo, piloti, moto, motori, biciclette, ruote dentate, meccanica in generale, etc. etc.
«Puoi leggere questi» ha detto, poi è uscito. Ho sperato che il racconto si scrivesse da solo.
Attention. Trois deux un beee.
Iniziavo a pedalare, concentratissima. Rispettavo tutti i paletti che mi ero imposta, con la solita andatura deprimente. Intanto contavo nella mia testa – uno, due, tre, quattro – contavo più piano se stavo andando bene, mentre i secondi scorrevano più velocemente se sbagliavo qualcosa o se avevo delle incertezze. Ero un giudice severissimo e non vincevo quasi mai, nonostante fossi l’unica in gara. Quello che ho imparato nei lunghi pomeriggi, da sola, a sei anni, in cortile, a girare intorno al palazzo, con la mia biciclettina rosa, è che la volontà non sempre basta, che per vincere non serve solo crederci, anche se ci credi tantissimo, che per vincere non basta sudare, allenarsi, impegnarsi, mettercela tutta. A volte non vinci e basta.
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