Samuele stringe con le dita gonfie e rosse il manico della tazza. È arrabbiato, per questo ha preso a mordersi. Addenta con gli incisivi la pelle sotto le unghie e la trascina fino in fondo alle falangi. Sbuccia le dita come fossero banane. La pelle non fa in tempo a ricrescere che la strappa di nuovo. Le sue dita sono umidicce. Gli altri bambini non vogliono dargli la mano; tutti i giochi che tocca vengono contaminati. «Misurati di nuovo la febbre» sibila la madre, mentre gratta i piatti con una spugna logora. Non si gira a guardarlo. Lui infila un dito in bocca e vola in camera.
Samuele a cinque anni rispondeva che il suo colore preferito era il grigio. A quale bambino piace il grigio? «Prendi i soldi per la merenda» continua fischiando tra i denti e appoggia due euro sul tavolo, impilati, inumiditi dal detersivo, e divisi in pezzi da venti e cinquanta centesimi. Anni dopo, Sara si scoprirà a ripetere lo stesso gesto ogni volta che capita con delle monetine in mano. Al bancone di un bar qualsiasi, qualcuno le dirà per scherzo che non si paga con le fiches. Lei riderà come un’ipocrita. «Grazie» risponde infilandosi i soldi in tasca. Sua madre le sorride, anche lei ipocrita. Pensa ai soldi che non può spendere e a quelli che non sa nascondere. Pensa al granulato grigio delle padelle antiaderenti, alla consistenza testarda delle incrostazioni calcaree sui fornelli, al grasso che appiccica le credenze, a tutto l’universo di colori appassiti che lava, asciuga, ordina, lustra con impacchi di aceto e farina. Si sporcheranno ancora. Si sporcheranno, e dovrà riniziare tutto daccapo, sola. È stanca e ne trae la conclusione più ovvia: ucciderlo. Sara la guarda, senza capire. Guarda i due lembi di pelle attaccati al posto delle guance. Restano lì, penzoloni. Li fissa intensamente e pensa ai bulldog inglesi. Pensa alla pelle pesante, la sclera arrossata dei bulldog inglesi. Pensa a sua madre imbronciata, da giovane. La immagina bella. Immagina un cucciolo di bulldog inglese correre felice su un prato. Riflette sul fatto che solo le cose giovani o carine possono permettersi il broncio. Pensa al padre che non trova mai un lavoro. Quando sua madre glielo ricorda la tira per i capelli e la sbatte da un lato all’altro della stanza, il corpo molle in danza. Riflette sui suoi denti ocra e impastati, quella sfrontatezza nell’esibire un sorriso che crede smagliante. Quel naturale modo di mentire. Non è un inganno nemmeno per se stesso, per questo la sua rabbia è pura. Pensa agli occhi rossi di lei mentre dice che va tutto bene. Solo gli uomini, le cose giovani o quelle carine possono permettersi il muso. Il piccolo bulldog inglese inciampa, precipita di testa sull’erba.
Sara si alza, posa la sua tazza e quella del fratello nel lavabo. «Torno alla solita ora, se devo andare a prendere qualcosa per Samu chiamami». Chiude dietro sé la porta, e senza pretendere alcuna risposta scende verso il garage.
Il sole è feroce. Punge la sterpaglia ingiallita, rumore di automobili, ronzii. L’aria rarefatta strazia i sospiri; nessuno ha più voglia di fare l’amore. In città, senza distinzione, le persone hanno smesso di credere nell’estate. Ognuno cerca il proprio riparo all’ombra che può permettersi. Il garage di Sara è buio e puzza di benzina. Ci sono bottiglie di alcolici, vetri, e cuscini di vecchie sedie buttati a terra alla bell’è meglio. Su una colonna è stato inchiodato un tabellone da freccette. Padre e amici devono essersi divertiti, ieri notte, almeno fino al momento in cui qualcuno ha deciso di pugnalare con un cacciavite il serbatoio del tagliaerba. L’odore pungente le mozza il fiato. Sara prende il serbatoio mezzo pieno e lo svuota nella tazza del bagno. Con un secchio getta dell’acqua sul piastrellato e tampona con dei panni bucati la benzina sparsa. Tira una freccetta, non va a centro. «Chi ti ha detto di giocarci?»; suo padre è tornato. La luce lo irradia da dietro, disegnando un alone celestiale che gli percorre l’intera figura. Sembra un miracolato, un santo, l’eroe che porta con sé speranza e prosperità. La scriminatura larga e terribile divide in due nette metà i capelli radi e stopposi. Gli occhi sono piccoli, indecifrabili, e divorati dal volto gonfio e imperlato di sudore. Il ventre duro e pieno spinge la canottiera a righe in avanti, creando una piega che svela parte dei peli pubici, scoperti dall’elastico sdrucito dei pantaloni. «E per che cazzo di motivo non sei a scuola?» continua sarcastico, e si accende una sigaretta. Parla con voce sepolcrale, lenta, come chi è ormai incapace d’immaginare un’alternativa al prevedibile. Gli incisivi marci, gialli e impastati piegano in due il filtro. Sara rabbrividisce. Pensa ad una scolopendra, alle sue zampe acuminate e alle placche dure che dividono il corpo in segmenti, alle membrane che stritolano i piccoli roditori prima di avvelenarli. Quell’aria urgente e disperata lo fa ridere. Ride sguaiato, in preda a un’energia febbrile: la bocca è una caverna nera abitata da una perseveranza triste e rabbiosa. Poi si ferma e torna a fissarla. «Muoviti, esci» ordina, e senza aspettare che ubbidisca si trascina verso il bagno. Sara inforca la bici e guizza sul vialetto. Pedala veloce tra gli alberi ricoperti da chiazze limacciose; i tronchi ne verranno inghiottiti. Anche il giardino ha smesso di respirare. Sull’erba sua madre è scalza, fissa i rami spogli e stringe un coltello lucido. Dentro il petto le rimbomba quella risata senza malizia, senza sospetto, che risuona con quel fondo di stupidità, una risata che non è minacciata da niente, che non sa niente, non immagina niente: sarà l’ultima volta. Il viso è stretto in un’espressione radicata e irremovibile. La rabbia è sconfinata. Le sfugge di dosso, vibra dal corpo fin sotto terra. Trema dai profondi abissali, dalle zone più illune e nere. È liquida e inestinguibile. Sale dal mare che fende le insenature dei porti, mastica il fondo sabbioso, si insinua tra le fogne, nei canali di scolo; vortica tra le tubature della città. Serpeggia nei condotti sotto uffici rumorosi, caffetterie semiaperte, autobus pieni, parchi, lavanderie, supermercati abbacinanti; si aggroviglia tra le case, sorpassa letti rifatti e telegiornali ad alto volume. Tracima, accumula, e si rannicchia stagnante, in agguato; crudele e compatta aspetta che la tavoletta del bagno si alzi. Galleggia sotto i pantaloni calati dell’uomo, lo sente inspirare profondamente, in pace; attende limpida mentre lui lascia cadere, dall’alto, il tizzone ardente nell’invaso di ceramica. Il mozzicone non fa in tempo a toccare la benzina.
Un boato fende il caldo asfissiante. Tutte le strade sono deserte.
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