di Pietro Lenarda (essi vivono)
Non amava i viaggi lunghi, odiava l’aereo, ma si disse che bisognava essere pratici perché sapeva che Valery apprezzava la concretezza e voleva dargliene una prova. D’altronde non era forse quella sfacchinata di 12 ore di volo già di per se una prova d’amore, tangibile, più che concreta? Sapeva già che ad attenderlo Valery non ci sarebbe stata. Comprensibile, con tutto il carico di lavoro e di impegno che le doveva prendere questa sua nuova emozionante avventura.
Valery era stata selezionata qualche mese prima per un programma di tre anni nel più prestigioso centro di studi e di ricerca internazionale con sede in sudamerica, era una cosa grossa, prestigiosa, di certo questo lui lo capiva e lo rispettava. “E’ la tua grande occasione, vedrai che ce la faremo, la distanza non sarà un problema, saremo più forti”: così si erano detti prima che Valery partisse mesi prima.
Arrivò all’aeroporto in piena notte, prese un autobus diretto verso la città di Cusco, sede del prestigioso istituto internazionale. C’erano dei video sugli schermi dell’autobus che illuminavano con luci spettrali quella corsa notturna: mostravano le devastazioni lasciate dalle gomme delle auto lanciate nel deserto per le gare di rally, che avevano cancellato e distrutto le millenarie linee del deserto di Nazca, quelle linee che si vedevano dallo spazio, raffiguranti animali e misteriose figure antropomorfe. “Cristo che scempio” pensò.
Arrivò finalmente a notte fonda all’albergo. Non era esattamente un albergo ma piuttosto un alloggio per studenti dove aveva preso una stanza per quel mese. Era un palazzo altissimo, buio, polveroso. Sembrava un gigantesco alveare-dormitorio. Tutte le stanze si distribuivano circolarmente attorno ad un montacarichi che saliva all’infinito. Le stanze sembravano tutte zone di passaggio comunicanti una con l’altra, con gente mezzo addormentata che si rotolava agitata nell’ombra di lettoni sfatti. Arrivato nel suo alloggio, nella penombra riusciva a vedere che era già ingombra di roba, vestiti buttati per terra di qualcun altro o forse di più persone. Si accasciò ancora vestito su un letto di legno nero dopo aver preso una coperta poverosa che riuscì a trovare in un armadio anch’esso di legno nero e si addormentò così, sfinito dal viaggio.
L’indomani si recò all’istituto, per andare a trovare Valery, come si erano ripromessi. La trovò all’ingresso che lo aspettava già. Lei lo salutò spazientita dicendogli che era già in ritardo, doveva andare a lezione e non voleva fare tardi. Lui le chiese scusa e disse che si sarebbero visti più tardi non c’era problema la avrebbe aspettata, aveva le sue cose di lavoro da finire. Così Valery lo presentò in fretta ai colleghi di corso e scappò via tutta trafelata in aula.
Durante i giorni successivi, non si videro quasi mai, Valery era sempre impegnata con le lezioni, gli esami e doveva preparare il saggio di fine semestre.
Provò ad entrare in confidenza coi colleghi di Valery ma li trovò estremamente diffidenti quasi ostili nei suoi confronti. Sembrava che lo disprezzassero, che lo dileggiassero: si consideravano una élite scelta per studi avanzati, l’eccellenza internazionale, si sentivano superiori, erano arroganti e presuntuosi. Cominciarono a fargli quelli che loro chiamavano “scherzi”, gli facevano credere che c’erano delle regole ferree che vigevano nell’istituto e che lui le stava infrangendo tutte quante. La pena per quegli errori erano dei pagamenti in denaro che doveva effettuare e a volte qualche colpo dato bonariamente ai fianchi. Non riusciva a capire se erano scherzi, ma stava al gioco.
Una volta due dei colleghi di Valery, Juan e Victor con cui era entrato più in contatto, lo portarono fuori a bere in città dopo il lavoro. Non si sentiva a suo agio con loro, ma gli sembrava comunque un traguardo aver ottenuto quella confidenza. Per tutto il tempo parlarono nella loro lingua senza che lui riuscisse a comprendere quasi nulla, ridevano forte, gli stringevano il braccio attorno al collo con gran forza, gli tiravano grandi pacche sulle spalle facendogli male. Bevvero parecchio, fu lui a offrire tutto.
Tornò all’albergo e se ne andò nel suo appartamento, sembrava che ci fosse altra gente nel buio delle camere accanto alla sua, non capiva mai chi ci fosse in quelle stanze, sempre oggetti e vestiti buttati in terra alla rinfusa. Per un attimo gli parve di sentire la voce di Valery con un’altro stesi sul letto nella stanza accanto. Era troppo stanco per stare a pensarci e se ne andò a dormire.
Il giorno successivo decise che ne aveva abbastanza, che voleva andarsene via da quel posto e tornare a casa, ma aveva promesso di rimanere per lei fino al suo saggio di fine semestre. Ormai non andava più all’istituto, perché non gli pareva sicuro e non aveva voglia di incorrere in altri “scherzi” o di farsi derubare, dato che i suoi risparmi stavano finendo. All’albergo aveva ancora meno voglia di stare, quindi vagava tutto il giorno da un bar all’altro per le enormi strade di Cusco.
Lo affascinava l’idea di andare a visitare il famoso zoo, di cui non aveva mai sentito parlare prima, ma che pareva un vero e proprio vanto della città. Si interessò, prese dei flyer che descrivevano le più assurde attrazioni di quell’incredibile luogo.
Vi erano animali primordiali mai visti prima, creature incomprensibili che sembravano contorcersi dolorosamente tentando, senza riuscirci, di assumere una forma definitiva: sorprendenti granchi rosa di dimensioni enormi, che si aprivano a scatto come dei fiori dai petali bitorzoluti e taglienti, c’erano dei leoni marini che sembravano degli enormi gasteropodi, pieni di peduncoli e antenne che sgocciolavano mucillagini.
Rientrando per strada una notte si imbattè in due figure che sembravano i due colleghi di Valery con cui era uscito tempo prima e con cui aveva fatto amicizia. Questi gli andarono incontro minacciosi, chiedendogli subito dei soldi, lui disse che non ne aveva più, allora cominciarono a dargli gran botte ai fianchi e lo lasciarono steso a terra.
La mattina si svegliò dolorante ancora a terra, la luce del sole lo accecava e intorno a lui cominciò a intravedere riunito un capannello di gente. Riconobbe le facce di tutti quelli dell’istituto che ridevano e parlavano tra di loro indicandolo, gli parve di vedere anche Valery distante, aveva cambiato colore di capelli, non lo guardava neanche. Allora in preda alla disperazione urlò: “Ma cosa volete da me? Non ho più niente, sto male, voglio andarmene da qui”. In quel momento da quella folla scoppiò un applauso lunghissimo, e subito dopo petardi e cori come per una festa laurea. “Ma non capisci?” gli disse qualcuno sorridendo e tendendogli la mano per farlo rialzare in piedi “era questo il saggio di fine semestre di Valery: eri tu il saggio di fine semestre”.
Lo rimpatriarono con un volo governativo dell’ambasciata. Seduta di fronte a lui c’era una coppia di anziani che guardava un po’ lui, un po’ il panorama. Sembrava di stare in una cabinovia, non in un aeroplano. Passarono lentamente scivolando in verticale sopra i palazzi della città, l’aereo sembrava andare lentissimo. Chissà quanto ci avrebbero messo a tornare a casa? Passarono sempre in verticale lungo i crinali delle montagne. Le montagne sembravano avere delle forme di facce antropomorfe, ma solamente se uno le voleva vedere.
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