Mentre tutti ridevano, ubriachi quel po’ che basta per smussare gli spigoli e sciogliere la lingua, lei giocava a riconoscere la solitudine: “sono sola”, pensava, “nessuno vuole davvero che io rimanga”. Aveva imparato che a volte il vino aiutava, a volte era peggio: non c’era modo di saperlo in anticipo. Stare bene era sentire la solitudine come un dolore ad una gamba, qualcosa di esterno da osservare, un livido di cui non si ha colpa. Stare male, invece, era credere alla solitudine, farsi portare sempre più lontano, dove non c’era nulla se non la voglia di dormire e guardare video di gattini per pomeriggi interi. Gattini che saltano, cadono dalle scale, gattini che si arrampicano su per delle grondaie e non sanno scendere, gattini addormentati.
Stare male era guardare video di gattini per pomeriggi interi e chiedersi se qualcuno, da qualche parte, sapesse cosa le stava succedendo e rispondersi che no: a nessuno mancava, nessuno l’avrebbe cercata. Sentirsi tremendamente in colpa, sentirsi responsabile di quel vuoto, di essere fondamentalmente sbagliata, incapace di avvicinarsi agli altri, di farsi avvicinare, come un animale feroce, ma senza la forza o il mistero: solo una fame incomprensibile e senza tregua di qualcosa che non sapeva mettere in parole. Amore? Sesso? No. Empatia forse? Faceva fatica a finire i pensieri: un gattino cadeva sui fratelli e mamma gatta lo sgridava, lo metteva seduto e gli soffiava addosso.
«Sei uno stupido, potevi ammazzarli».
“I gatti non dovrebbero parlare”, pensava lei.
«E chi lo dice?» chiedeva la gatta guardandola dritto negli occhi con una cattiveria che la spaventava. Aveva imparato che quando i gattini parlavano doveva smetterla e farsi una doccia o rischiava di finire male.
Mentre tutti intorno ridevano, rivedeva gli occhi dei gatti: tre palpebre, due sopra che sbattono come le nostre, e una sotto che sale al contrario; la cornea, l’uvea, l’iride verde o azzurra; e quella pupilla sottile, una fessura appuntita in onice che fissava il mondo con disprezzo.
«Non ti sembra che i gatti ci guardino con disgusto?» chiese al vicino di tavolo che stava succhiando l’osso di una rostinciana, la quarta o quinta a giudicare dal piatto.
«Come scusa?»
«No, chiedevo se i gatti…» ma prima che riuscisse a finire, dall’altro lato del tavolo qualcuno aveva urlato un brindisi e tutti avevano riso e alzato i calici e lei aveva provato a bere un po’ di vino, e poi ancora un po’, sperando fosse la sera giusta. Aveva brindato in ritardo, tutti i bicchieri già sul tavolo, ma il suo vicino aveva fatto cin anche con lei, per non lasciarla a mezz’aria con il Chianti che sbandava.
«Ma quindi, cosa c’entrano i gatti?» aveva detto.
«Niente dicevo solo che…»
La voce le si gelò in gola quando in fondo alla tavernetta con travi in legno, pavimento in cotto e un caminetto immenso, carico di griglie, apparve un siamese dagli occhi azzurri e stupidi. La guardò per un attimo, poi si avvicinò al padrone di casa e si strofinò contro le gambe del tavolo, alzando la coda nera e miagolando.
Finì il vino in un colpo solo e ne chiese ancora, e poi un altro bicchiere. Vedeva la bocca del vicino che le diceva qualcosa e annuì, facendo un gesto come dire: non è niente, sono sciocchezze. Si ostinò a fissare la bocca – una bella bocca, senza baffi né barba – per non vedere il gatto sollevato da terra e preso in braccio dal padrone di casa che conosceva da una vita, dai tempi del liceo. Si chiese se lui avesse mai avuto un gatto, ne avevano parlato? Tutte le volte che cedeva e si voltava, il siamese la fissava, ignorando la carne che tutti si divertivano ad offrirgli.
«Non ti sembra strano quel gatto?» chiese al suo vicino che le stava parlando di musica e concerti ai quali lei non sarebbe mai andata.
«Macchia? E perché povero gatto?»
Macchia balzò giù dalle gambe del padrone e la puntò deciso. Attraversò tutta la stanza ancheggiando morbido sulle zampe bicolori. Lei sudava, teneva le mani strette al tovagliolo ricamato e avrebbe potuto disegnare le gocce che le scendevano dalle ascelle sui fianchi una a una, terrorizzata dall’eventuale alone che avrebbero prima o poi lasciato sulla maglietta. Macchia si sedette ai suoi piedi e iniziò a leccarsi accuratamente: prima la zampa destra, poi sinistra, poi quelle posteriori e infine il pene.
«Guarda come ti vuole bene, perché non ti prendi un gatto anche tu?»
Macchia si stirò e cominciò a leccarle il polpaccio con la sua lingua ruvida come carta vetrata. Leccava avidamente, aiutandosi con le zampe, strofinando il muso, a occhi chiusi.
«Perché poi quando muoio finisce che mi mangia» disse.
Dopo il dolce, uscì per prima e non entrò in macchina. La strada di campagna era punteggiata di lampioni fino all’orizzonte. Sotto al primo c’era un gatto. Pochi metri più avanti, sotto al secondo due. Poi quattro, otto, sedici gatti ordinati nel cerchio stretto della luce. Lei camminava tenendo lo sguardo a terra, cercando di non farsi notare. Trentadue gatti divisi in quattro file di otto, come un piccolo plotone. Sessantaquattro gatti, arrotolati gli uni sugli altri. Non c’era nessuno intorno, solo i campi morti dell’inverno, pieni di gatti, randagi, casalinghi, che miagolavano disperati cercandosi nel buio. C’era solo lei, come al solito.
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