di Giacomo Canton
(essi vivono)
Entrò nell’ingresso con il borsone al collo e gli occhi nascosti dal cappuccio della felpa. Strisciò la tessera nel lettore per gli accessi che azionava il tornello d’entrata e proseguì a testa bassa. Non voleva sapere quante persone ci fossero in vasca. Nello spogliatoio si cambiò in fretta, poi chiuse le sue cose dentro l’armadietto. Usò il lucchetto che aveva comprato quel pomeriggio. Si fece una breve e gelida doccia, così, una volta entrato in piscina, l’acqua gli sarebbe sembrata calda.
«Ne mancano solo quindici per arrivare a cento» aveva detto il dottore, dandogli una pacca sulla spalla. Poi aveva aggiunto qualcosa sugli anni migliori, sul metabolismo, sulle ragazze con i capelli che profumavano di shampoo, ma Carlo aveva smesso di ascoltare. Ottantacinque chili per un sedicenne alto poco più di un metro e settanta erano veramente troppi, servivano una dieta equilibrata e un’attività fisica costante. Il dottore, alla fine della visita, gli aveva consigliato il nuoto: si poteva fare in qualsiasi stagione e allenava tutti i muscoli del corpo.
A Carlo l’idea di mettersi in costume e sguazzare in mezzo ad altre persone non andava proprio a genio, ma pensava fosse meglio di uno sport di squadra dove sarebbe stato costretto a inserirsi in un gruppo già formato, conoscere altre persone, dipendere da loro e rendere manifesta la sua incapacità. E poi nel nuoto non si sudava. Sudare lo faceva sentire sporco.
Non avrebbe potuto nascondere il suo corpo in piscina. In acqua, nello spogliatoio. Sarebbe stato nudo. La pancia, le braccia, le cosce di ricotta. Lo avrebbero guardato tutti. Sperava solo che ci fossero altri come lui.
Quella sera non c’era molta gente. Due signore anziane sgambettavano ai bordi della vasca ridacchiando fra di loro con voci acidule. Carlo si sistemò il costume, cercando di alzarlo sopra i fianchi, drizzò la schiena e abbassò le spalle, trattenendo il respiro. Appoggiò il piede sul primo gradino della scaletta. Si guardò di nuovo intorno, poi si immerse. Inspirò l’aria, l’odore di cloro, fece qualche passo. In acqua era al sicuro, protetto, al caldo. Nessuno poteva vedere i dettagli del suo corpo. Fece le prime due vasche camminando per prendere confidenza con lo spazio e riscaldare i muscoli. Le due signore anziane si scambiarono rapide occhiate, Carlo fece finta di non notarle, poi si voltò e le guardò negli occhi. Le due si avviarono verso la scaletta. Una volta uscite, Carlo rimase solo.
Cominciò a nuotare. Non aveva mai imparato a nuotare. Da piccolo, mentre gli altri assimilavano, lui stava a casa a guardare la televisione. Avrebbe imparato da solo. Un paio di goffe bracciate e lo sbattere incessante delle gambe sul pelo dell’acqua gli permettevano di muoversi di qualche centimetro alla volta. Chiuse gli occhi e cercò il suo ritmo. Braccio, braccio, testa e respiro, piede, piede, testa e respiro. «Ne mancano solo quindici per arrivare a cento». Carlo era stanco di stare solo. Gli sembrava che le ragazze guardassero solo chi aveva il fisico asciutto e il metabolismo veloce. Erano sempre fidanzati quei ragazzi lì, anche se orribili, stupidi e antipatici. Carlo perse il tempo, annaspò, prese un’ultima boccata d’ossigeno e si immerse fino a toccare il fondo della vasca con il petto. Sgranò gli occhi, vide la distesa azzurra dell’acqua ma a stento riconobbe i contorni della vasca. Gli occhi bruciavano, sbatteva le palpebre. Si girò appoggiando la schiena al fondo, guardò la superficie da cui proveniva la luce e si vide riflesso. Il suo corpo era corto e tozzo, la sua faccia rotonda respingeva indietro il suo sguardo. Un urlo gli spalancò la bocca facendo uscire tantissime bolle, che si allontanarono da lui, correndo verso l’alto, come se stessero fuggendo, disgustate. Se si fosse lasciato annegare nessuno se ne sarebbe accorto. Avrebbe fatto uscire l’aria fino a esaurire le bollicine, poi avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe lasciato andare sul fondo della vasca. Sarebbe stato come addormentarsi. Non c’era nessuno, nessun rischio che qualcuno venisse a tirarlo su. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal quieto moto dell’acqua che lo faceva sentire al sicuro, protetto, al caldo. Poi sentì un dolore al centro del petto, aprì gli occhi e lasciò che l’istinto di sopravvivenza e le sue braccia facessero il resto. Risalì a fatica, il dolore sempre più forte, per un attimo ripensò a quando da piccolo ancora non pensava a niente e i suoi genitori lo portavano in piscina, e credevano gli piacesse tuffarsi, ma in realtà gli piaceva solo quello: toccare il fondo e risalire. Uscì respirando a pieni polmoni, finì per ingoiare un po’ d’acqua che lo fece tossire. Passarono pochi minuti e si rese conto che c’era un’altra persona nella vasca, poco lontano da lui. Si strinse nelle spalle per trattenere la tosse. Quella persona era una ragazza. Si girò dall’altra parte per evitare il suo sguardo.
«Sei rimasto giù molto».
«Come?».
La ragazza gli era venuta incontro. Gli stava rivolgendo la parola.
«Ho detto che sei rimasto giù molto tempo!».
«Ah, sì… sì, è vero».
La ragazza lo guardava come si guarda un animale raro. Aveva una pelle chiarissima, gli occhi delle persone intelligenti e le labbra rossissime nonostante il freddo dell’acqua.
«Ti piace fare apnea?».
«Cosa?».
«Ti ho chiesto se ti piace fare apnea».
«Veramente… non saprei».
«Ah, capisco».
La ragazza guardò oltre la testa di Carlo e alzò un braccio salutando qualcuno. Carlo si girò e vide un’altra ragazza che si apprestava a entrare in vasca.
«C’è la mia amica. Ciao!».
«Eh? Ah, ciao».
Con un paio di bracciate esperte la ragazza aveva raggiunto la sua amica, prima che il ciao di Carlo esaurisse il suo rimbombo nell’edificio. Carlo rimase a guardarle. La nuova arrivata lo fissò con aria interrogativa, lui arrossì e si immerse in acqua. Tornò sul fondo e chiuse gli occhi, sperando di ritrovarla su ad aspettarlo, per riprendere la conversazione.
Non fu così. Lei rimase a nuotare nella sua corsia, insieme all’amica. Quando Carlo si avviò verso gli spogliatoi aveva voglia di sorridere e non badò a chi c’era attorno a lui o a chi lo stava guardando. Non sentiva nessuna fatica, nessun dolore ai muscoli. Una volta fuori, si avvicinò alla sua bici legata alla rastrelliera. Quando si chinò per aprire il lucchetto, le vide, le due ragazze, attraverso una finestra appannata dal vapore, mentre uscivano dallo spogliatoio. Le salutò con un cenno. La ragazza con cui aveva parlato gli sorrise. Carlo si sentì avvampare e montò sulla bici per fuggire via. Il cuore gli batteva fortissimo al centro del petto. Non vedeva l’ora di tornare in piscina l’indomani. Pedalò fortissimo e tornò a casa in pochi minuti.
Rispondi