di Clara Galletti e Mattia Rutilensi
John McRobertson è un affermato giornalista che si trova ad intervistare Annie Fang, attrice cinematografica. Per mostrarle ciò che i Fang hanno significato per lui, un tempo giovane studente di arte contemporanea, durante l’intervista John le legge un estratto della sua tesi di laurea, dedicata alle performance della famiglia.
I Fang: una famiglia di artisti americani
Capitolo 2. La famiglia Fang nel mondo della performance art
In questo capitolo analizzeremo la produzione dei Fang in senso ermeneutico, confrontandoli anche con artisti coevi. In questa indagine ci appoggiamo alle parole di Donaldson, che definì l’arte dei Fang “un’arte affascinante, degna di attenzione”[1]. Riteniamo infatti che l’arte dei Fang non si limiti a inserirsi nel solco del tradizionale épater le bourgeois. I loro sforzi incanalano energie in una direzione creativa ad ampio raggio, capace di generare un impatto a lungo termine.
I Fang, infatti, sviluppano la totalità delle loro performance non solo in una dimensione orizzontale, il rapporto tra artista e società, ma anche in senso verticale, inserendosi nel flusso del tempo e coinvolgendo attivamente i loro stessi figli, Annie e Baxter, nella realizzazione. Così facendo la loro arte affronta di petto sia il chronos che il kàiros, esplicitandosi in quello che Steiner chiamava “l’effimera eternità della Weltaanschaung dell’arte”[2]. Non si può negare infatti che l’azione dei Fang sia intrinsecamente legata al carpe diem di oraziana memoria.
Fin dalle primissime, seppur incerte, prove del giovane Caleb Fang con la balestra, la loro arte si qualifica come un gesto titanico, volto a irrompere negli interstizi delle convenzioni sociali, forzando la cornice di situazioni cristallizzate per rivelare l’abissale vuoto dietro le nostre abitudini quotidiane.
Si consideri ad esempio Enjoy the meating, la loro performance ambientata durante una festa scolastica di Carnevale. In essa, il tenero costume da maialino indossato da Annie e Baxter rivela ad un esame più preciso le linee tratteggiate che identificano i tagli della carne suina.
L’abbigliamento di Caleb e Camille appare invece singolare fin dalla prima occhiata: lui con salopette e camicia di lino brandisce un forcone a tre denti, lei indossa una tunica nera e un grembiule logoro mentre saluta i figli con aria lugubre[3]. La loro apparizione sconvolge l’atmosfera della festa.
Non siamo quindi d’accordo con chi sostiene, come Hans-Ulrich Olbrist, che l’operato dei Fang vada considerato sotto l’etichetta della cosiddetta “selfish art”[4] e accomunato a quello che il filosofo Michel Foucault chiamava “Il culto californiano del sé”[5].
Per discutere meglio questa posizione, crediamo necessario paragonare la famiglia Fang alla coppia Marina Abramovic-Ulay. Il rapporto tra la performer serba e l’artista tedesco ha generato enorme attenzione fin dalle loro prime esibizioni, con installazioni che hanno fatto la storia dell’arte come Imponderabilia o Rest Energy. La critica successiva però ha svalutato queste performance. Nelle parole di Nicholas Serota: “Riconsiderate dopo qualche anno, le performance di Abramovic e Ulay scontano una certa irruenza giovanile e naif, risalta la loro assenza di contenuti”[6].
Aggiungiamo che l’arte della coppia, pur esplicandosi quasi sempre in gesti estremi, rischia di ottenere l’effetto opposto, perché lo stimolo esagerato viene rapidamente metabolizzato e lascia una traccia scarsa nelle abitudini dello spettatore.
Le opere dei Fang invece, pur apparendo meno dirompenti, puntano ad una sovversione delle aspettative, al brivido improvviso che solo l’inaspettato può regalare. In questo modo non ci lasciano in eredità immagini violente, di cui rischieremmo rapidamente l’oblio, bensì ci donano uno schema mentale, un’attitudine a non farsi vincere dalla realtà.
A tale proposito ricordiamo ad esempio performance come Stadium Arcadium: infiltrandosi tra il pubblico di una partita della MLB, i Fang si dividono a coppie di un adulto e un bambino e fingono di essere venditori ambulanti. I loro prodotti sono: panini del MortDonald, lattine di CocaComa e Sprout, bottigliette di Finta.
Gli stessi elementi di critica sociale ritornano anche in Of Mice and Men, ambientata a Disneyland. All’ingresso del parco, Caleb e Camille attendono i visitatori travestiti da Pietro e Trudy Gambadilegno, scherzando con i bambini in fila. Poco più avanti, Annie e Baxter distribuiscono ai visitatori bustine di zucchero a velo blu con un’etichetta che recita: “State per recarvi in un’aria ad alta densità di ratti. Usufruite anche voi del campione omaggio di veleno per topi”.
Ed è proprio nell’attenzione all’infanzia che si trova il nodo decisivo dell’arte dei Fang: non solo l’infanzia rivissuta e ricreata da Caleb e Camille Fang, ma soprattutto l’infanzia speciale dei figli della coppia. Predire il futuro esula dalle nostre capacità, ma è probabile che anche Annie e Baxter perseguiranno una qualche professione artistica da adulti. Se così fosse, ciò non sarebbe altro che la prova dell’importanza dell’arte dei Fang: le loro opere potrebbero essere dimenticate, ma hanno donato al mondo altri due artisti, e questo è il loro più grande lascito.
Nel prossimo capitolo discuteremo le nostre tesi con Hobart Waxman, insegnante di Caleb al college e collaboratore di molte opere dei Fang.
[1] Intervista televisiva sulla CBS, all’interno del programma What is art? il 08/10/1985
[2] G. Steiner, On Difficulty and Other Essays, Oxford University Press, 1978
[3] Il loro abbigliamento era probabile citazione di American Gothic, James Wood, 1930, oggi conservato all’Art institute di Chicago.
[4] Definizione tratta da John Canaday, What is Art? An Introduction to Painting, Sculpture, and Architecture, Alfred Knopf, 1980.
[5] Appunto personale da una conferenza di Michel Foucault all’università di Chapel Hill, North Carolina
[6] Nicholas Serota intervistato dalla BBC in merito alle scelte per la Whitechapel Gallery nella tramissione Contemporary artists, il 28/08/1984.
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