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In fuga dalla bocciofila

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La Dolce Vita | Dolce, dolcissima vita

22 Marzo 2022 di simone lisi

 

Molti sono i bar di fronte ai quali mi faccio problemi di passare.
Basterà cambiare lato della strada, non importa che mi sforzi a pensare percorsi alternativi, è sufficiente affrettare il passo e rivolgere lo sguardo al telefono.
Gli scrupoli non dipendono dal fatto che in passato sia scappato da quei bar senza pagare, o che lì abbia litigato con qualcuno, o almeno non in modo serio, ma è da ricercarsi in un’eccessiva vicinanza che le notti trascorse là mi portarono ad avere con gestori o baristi o cameriere o buttafuori, così che tornarci oggi sarebbe pietoso, per tutta la polvere che intanto si è depositata sui miei capelli, e questa faccia spiegazzata (ma gli occhi, spero, sono rimasti identici).
Uno dei bar dove non solo cambio lato, affretto il passo, guardo il telefono, ma, se li ho, indosso anche degli occhiali scuri, è il bar di Misha, detto semplicemente “il russo”.
A molti non dirà assolutamente niente, ma davvero ci fu un epoca in cui il russo fu per la nostra città come Via Veneto fu per Fellini.
Sull’insegna c’era scritto Marina, e sotto, in piccolo, cucina casalinga. Ci si poteva mangiare cucina russa, per l’appunto, che preparava Marina. Ma il posto era ben altro che un ristorante etnico. C’era un kebab, subito all’ingresso, come a schermirsi, o a volersi mostrare più semplice di quel che si è. E poi, soprattutto, c’era la vodka.
Litri e litri di vodka. E c’era Misha, naturalmente, che era il padrone di casa e marito di Marina.
Lui era un tipo gioviale, avrà avuto all’epoca una cinquantina d’anni, e parlava un discreto italiano. Non che parlasse poi molto, ma con le persone ci sapeva fare e se tornavi, e tornavi, alla fine si affezionava a te.
Non ricordo quanto costava lo shot di vodka. Credo 3 euro, se la memoria non m’inganna, e Misha insieme al bicchiere ti offriva un pomodoro a fettine.
Ci chiedevamo se quella speciale cortesia che Misha riservava ai suoi clienti fosse qualcosa di autenticamente russo o se fosse invece una novità tutta italiana.
Esistono pomodori in Russia, Misha?
Non ricordo quale fu la sua risposta, perché a quel punto della serata io ero sempre troppo ubriaco.
Forse Misha il russo non era neanche russo. Forse moldavo, o ucraino, ma col senno di poi mi sembra impossibile accettasse un soprannome del genere.
Ricordo perfettamente quanto era il costo della bottiglia intera: 15 euro. Con un mio compare dell’epoca, Claudio detto il Coriolano, uscivamo e andavamo da Misha non come ultima tappa prima di congedarci, come facevano le persone normali, ma come inizio.
Perché aspettare per avere la parte migliore? diceva il Coriolano.
Aveva ragione lui.
Claudio metteva 5 euro, io altri 5 euro, e c’era solo da trovare un terzo compare, conosciuto o sconosciuto che fosse, per comprare la bottiglia intera e scolarsela tutta, seduti ai tavolini, senza fretta, come in un racconto di Gogol, mentre Misha ci portava vassoietti con il pomodoro affettato. E forse qualcosa sarebbe successo. Qualcuno sarebbe arrivato, qualcuno si sarebbe unito a noi.
O forse no.
Col senno di poi è facile giudicare quel tempo come abbrutimento, come semplice degradazione, nichilismo, ma io credo che ci fosse anche della bellezza.
Non penso alle cose più evidenti, come la volta che qualcuno aveva dell’inchiostro o dei pennarelli indelebili in tasca e, al culmine dell’ubriachezza, dipinse il volto di tutti i presenti, conosciuti e sconosciuti che fossero, con arabeschi o maori che solo la mattina dopo sarebbero venuti via lavandosi con acqua e sapone; penso a cose meno eclatanti, penso ai discorsi sui massimi sistemi con gente mai vista prima, ragazze con cui finimmo a letto, biciclette appoggiate sotto case altrui e mai più ritrovate. Penso, al di là di questo, anche a una certa semplicità nell’andare da Misha a non fare nulla finché non era tardissimo e qualcuno diceva: «E ora andiamo al Blob».
Allora ogni volta ci perdevamo in quei 300 metri in linea d’aria tra via Verdi e quella strada di cui mai imparammo il nome. C’era una statua, forse Padre Pio, posta in un angolo che serviva ad orientarci e a guidarci fino al portone del club, e a quel punto c’era solo da convincere l’enorme buttafuori a farci entrare nel locale senza la tessera, senza soldi o, in alternativa, se la nostra retorica non bastava, tornare a casa mentre intorno a noi già albeggiava.

Qualche giorno fa ho rivisto per strada quel vecchio buttafuori che moltissime volte avevo infastidito con le mie richieste ubriache, ma tutto sommato, rispetto a quelle di altra gente, direi molto dolci e ragionevoli.
Mi sono affrettato a cambiare lato della strada e a guardare il telefono, ma lui se n’è fregato del mio teatrino, e mi ha gridato dietro: «Simone, è inutile che ti nascondi, fai sempre schifo».

Allora ho attraversato la strada, ho messo il telefono in tasca, ho tolto gli occhiali scuri e mi sono avvicinato al tizio. E ho capito: l’ho guardato fisso negli occhi e ho capito. Io non passo più davanti a quei bar, o se lo faccio è solo nei modi sopra indicati, non tanto perché ho paura che qualcuno mi riconosca (un buttafuori, Misha o chi per loro) quanto perché ho un autentico terrore di scoprire che nessuno mi riconosce più, che i loro sguardi mi passano attraverso senza fissarsi, senza memoria e avere la conferma che quell’epoca è lontana e il tempo trapassato.

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Tag: federico fellini, la dolce vita, Misha il Russo, simone lisi Fai un commento

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