Il 15 dicembre 1966 Walt Elias Disney, noto ai più semplicemente come Walt Disney, muore a Burbank, California, per un collasso cardiocircolatorio causato da un tumore al polmone sinistro che gli era stato diagnosticato in autunno. Si racconta che, ormai vicino alla fine, si appuntò due ultime parole: Kurt Russell.
All’epoca Kurt non era altro che un quindicenne con un taglio di capelli alla Ron Howard in Happy Days fresco di contratto con – giustappunto – la Disney, ma nessuno ha mai capito perché si fosse guadagnato gli ultimi pensieri di Walt – incluso lui stesso.
Secondo lo storico del cinema Robert Osborne, Kurt è stato la punta di diamante della scuderia Disney per tutti gli anni settanta, ma quella fama prepuberale che per quasi tutti rappresenta una condanna al ben noto sentiero conto in banca esponenziale prima dei diciotto –> fine della carriera dopo i venti –> eroina –> obitorio/disintossicazione+conversione, per lui non è stata altro che un comodo trampolino di lancio. Anzi, con la Disney si è trovato talmente bene che – ormai trentenne – è stato felice di dare la sua voce al cagnetto dalle grandi orecchie protagonista di Red e Toby nemiciamici.
Una delle cose che ha tenuto i piedi di Kurt ben ancorati a terra – evitandogli buona parte di quei grilli per la testa che fanno coppia fissa con il ruolo di baby attore – è stata la sua passione per il baseball, che considerava esattamente alla stregua della recitazione (“Se un camion dovesse investirmi e spappolarmi la faccia vorrà dire che giocherò a baseball, se invece dovesse venir fuori che come battitore non sono un granché, allora farò l’attore”). Ricopriva il ruolo di seconda base nella minor league finché nel 1973, mentre giocava con gli El Paso Sun Kings e dominava la Texas League con una media battuta di .563, non si infortunò una spalla scontrandosi con un giocatore della squadra avversaria. L’incidente fu la fine della sua carriera sportiva. “Oltre che un giocatore di baseball sei anche un attore, giusto?” – gli chiese il medico sportivo che lo visitò – “Esatto” – gli rispose lui – “Beh, da oggi sei un attore a tempo pieno” – glissò il dottore.
Alla fine degli anni settanta, dopo varie parti in serie tv e film minori Kurt si aggiudica il ruolo di protagonista in un biopic televisivo sulla vita di Elvis, cosa che gli vale la nomination a un Emmy – altrimenti detto l’Oscar della televisione. La vera svolta per lui non fu tanto il premio, quanto il fatto che il regista del film in questione era l’allora trentenne John Carpenter, a inizio carriera e reduce dal freschissimo successo di Halloween.
L’incontro, benedetto dal Re del Rock in persona, fa scoccare la scintilla che durante gli anni ottanta porterà alla genesi del Kurt Russell che tutti conosciamo – il duro dall’animo nobile fasciato in canottiere sapientemente sdrucite, con la benda sull’occhio, la battuta pronta e il destro facile – parallelamente alla comparsa di una serie di grandi classici intramontabili.
Ma non era la prima volta che Elvis ci metteva del suo, visto che l’esordio del giovane Kurt era stato proprio in un film di Presley dall’accattivante titolo Bionde, rosse, brune… Il misterioso ma innegabile ruolo dell’ormai defunto cantante del Mississippi nella sua scalata al successo doveva apparire ovvio anche allo stesso Russell, che cercò di pareggiare i conti con il padrino celeste prestandogli la voce in Forrest Gump, e interpretando un criminale travestito da Elvis che svaligia un casinò durante una convention di imitatori di… Elvis nel non proprio memorabile La rapina.
1997: Fuga da New York (con il suo deludente ma comunque imperdibile sequel), La Cosa e Grosso guaio a Chinatown – dicevamo – sono stati i mattoncini sui quali migliaia di ragazzi e ragazze negli anni ottanta hanno costruito la propria idea di cosa fosse fico e cosa non lo fosse. L’espressione da duro era fica. La giacca di pelle sopra la canottiera nera era fica. I capelli lunghi pettinati all’indietro erano fichi. Ma soprattutto, non filarsi neanche un po’ le ragazze era esageratamente fico.
Pensateci. In 1997: Fuga da New York compaiono due donne in tutto il film, di cui una viene snobbata in quanto amante del collaborazionista-vigliacco e riabilitata solo quando decide di immolarsi per la causa, facendosi segare a metà dall’automobile dei cattivi mentre spara all’impazzata cercando di fermarne la corsa (non che a Kurt/Snake Plissken baleni mai l’idea di dissuaderla, anzi), mentre l’altra, prigioniera del carcere/fortezza di Manhattan esattamente come il nostro eroe, gli chiede di portarla con sé con un il più classico dei “prendimi, sono tua” solo per vedersi abbandonare cinque minuti dopo alla mercé di un branco di cannibali infoiati – arrivederci e tante care cose a casa.
In Grosso Guaio a Chinatown lo spavaldo camionista Jack Burton preferisce guidare il suo bestione meccanico nella notte tempestosa piuttosto che rimanere con la graziosa avvocatessa Jackie Law, mentre in La Cosa il problema è eliminato alla radice, visto che in quasi due ore di film non compare nemmeno l’ombra di personaggio femminile.
Il messaggio del dream-team Russell-Carpenter è chiaro: i veri uomini non hanno bisogno delle ragazze, se vi dovesse mai venire in mente il contrario fatevi una birra e mollate due pugni in faccia a qualcuno, vedrete che passerà.
Sia chiaro, non sto parlando di misoginia o cose del genere, ma semplicemente di essere-troppo-fico-punto-e-basta. La cosa doveva aver impressionato non poco anche Quentin Tarantino, che nel suo Death Proof porta tutto all’estremo facendogli massacrare senza motivazioni apparenti cinque ammiccanti malcapitate per poi farlo pestare a morte da un gruppo di stuntwoman che non trovano il suo atteggiamento da bullo per niente divertente.
Consacrato dalla Disney, benedetto da Elvis, forgiato dal baseball e troppo cool per manifestare un minimo d’interesse in una ragazza, Kurt Russell non è solo il ritratto del vero eroe americano, ma anche tutto quello che qualsiasi essere vivente sulla faccia del pianeta Terra (siamo sinceri) vorrebbe essere, o avrebbe voluto essere negli anni ottanta.
Corollario
Dopo un primo matrimonio poco duraturo, nel 1983 Kurt rincontra sul set del film Silkwood l’attrice Goldie Hawn, una vecchia conoscenza con la quale aveva già recitato quindici anni prima, appena diciassettenne. Sboccia l’amore e da quel momento i due non si sono più separati, trent’anni di felice non-matrimonio – visto che entrambi erano già passati per le trafile del divorzio e non avevano più la benché minima intenzione di mescolare i legami con la burocrazia. Kurt Russell, l’uomo che schifava le ragazze, ha finito per passare più della metà della sua vita insieme a una di loro; hanno avuto un bambino e i figli del precedente matrimonio di lei lo considerano un padre.
Alla fine dei conti, Kurt è veramente un eroe.
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