Il Korea Film Festival (KFF) sono due festival in uno: il primo, quello di chi ha da sempre amato la Corea e il suo mix letale di violenza, lotta di classe, ossessioni, voglia di assoluto, anche quando nessuno avrebbe saputo citare un solo nome di regista, musicista, attore coreano; il secondo, quello dei ventenni che si sono innamorati della Corea con i BTS, il K-Pop, e da lì sono partiti per scoprire i registi – Kim Ki-duk, Park Chan-wook, Bong Joon-ho. Le due fazioni si riconoscono subito: capelli bianchi e rughe i primi, capelli colorati su facce lisce e giovanili, i secondi. All’aperitivo di inaugurazione c’erano moltissimi primi e pochissimi secondi; in sala molti secondi e pochi primi.
Non che io abbia guardato dei film in sala: credo che non vedrò mai più un film coreano, o almeno per molti anni. Essere un giurato del KFF è un grande onore, ma in perfetto stile coreano richiede un grande sacrificio e – in definitiva – una rinuncia. La grandezza sta proprio nel rinunciare, nell’immolarsi, non tanto nella causa o lo scopo (tutti degni: dall’arte, alla politica, alla vendetta), ma nella dedizione completa e assoluta a fare quello che stiamo facendo. Se sei un pervertito, nasconditi nella doccia della tua vicina fino a farti ammazzare dal suo ragazzo. Se sei un vecchio a cui hanno ucciso la famiglia, vendicati con tutti menando altri vecchi e sgozzandoli a mani nude.
Io ho cercato di fare quello che ho potuto. Per quasi un mese, ho guardato almeno un film coreano al giorno, sabati e domeniche inclusi, e se questo non vi sembra difficile, o grandioso, è perché non avete mai guardato un film coreano al giorno per quasi un mese, mentre la vita fuori continua, le persone si innamorano e ti lasciano e arrivano e se ne vanno, mentre i mandorli fioriscono e perdono i fiori, le capinere spuntano da dentro le siepi e si affacciano alla finestra guardandoti incuriosite. In definitiva, è stata una forma di meditazione: accendi il proiettore, chiudi la finestra, aggiusta il volume, perditi in una lingua sconosciuta, un mondo di cui riconosci i cellulari, gli adolescenti svogliati e anemici, la voglia di amore e la solitudine, eppure alieno, lontanissimo e incomprensibile, da accettare così com’è, osservandone la bellezza e la disperazione. E il giorno dopo ricominciare da capo, osservando la lista dei titoli riempirsi di note e numeri, imparando a dire: “pronto”, oppure “grazie” o “merda”, l’orecchio che si abitua a nuovi suoni, finché non diventa quasi un bisogno, finché vedere un film coreano al giorno è la tua felicità, la tua piccola, semplice felicità, la tua compagnia, nonostante il sole si muova e ti rimproveri l’immobilità, nonostante ci sarebbero altre cose da fare. Un giorno, un film: semplice, chiaro.
E proprio quando raggiungi questo stato pacificato di unione con la complessa macchina creativo-industriale coreana, finanziata da abbondanti sovvenzioni statali che hanno contribuito a creare un immaginario globale paragonabile a quello del vicino insulare (mai nominarlo), proprio quando inizi a capire che dietro la violenza più estrema c’è amore e dietro la carezza più dolce un freddo desiderio di morte, quando inizi a credere non di aver compreso la Corea – impossibile anche per i coreani – ma di averla quantomeno vista, di saperla guardare ad occhi aperti, proprio mentre sorridi quando riconosci lo stesso attore più giovane o più vecchio, come un amico in una folla di sconosciuti e ti chiedi cosa ci faccia lì, lontanissimo da dove l’avevi lasciato, proprio allora, i film finiscono.
E tu stai lì, con la tua lista di voti da giurato ben ordinata e incontri gli altri giurati che hanno occhiaie scure e sguardi straniti come il tuo. E vi dite a vicenda: «Certo, sono molti film», ma in realtà vorreste dire: «Non sono più lo stesso, tutto in me è cambiato ormai, come tornerò a casa?» Vi stringete attorno al vincitore e alla menzione speciale, guardandoli come dei figli in partenza per l’università. Presto rimarrete solo voi, i piatti da lavare e un senso di vuoto: era tutto qui? Non dovremmo essere felici, adesso? Ma subito vi vengono in aiuto i film che avete visto – oh, saggi maestri coreani che ci insegnavate senza insegnarci. Il KFF è una bellissima amante che vi ha già dimenticato e che voi, invece, non dimenticherete mai più.
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