di Matthew Licht
Il volo Tokio-Dusseldorf arrivò con un forte ritardo. L’aeroporto giaceva nel buio, quasi nel silenzio. “Beat” Takeshi Kitano piombò dal velivolo, proruppe dal sonnolento controllo passaporti, invase l’ufficio noleggio automobili 24-ore per esigere una Mercedes, “Nera come un coleottero di una notte d’agosto senza luna, con un motore da elefante,” disse alla commessa bionda mezza addormentata, e diede una manata al banco.
L’unica parte che lei capì, a parte Mercedes, era nera.
Il regista nipponico fumò distrattamente mentre lei batteva sul dispositivo noleggio autovetture. Non era minaccioso come appariva sullo schermo, ma non amava sprecare tempo. Meditabondo, ascoltava già John Coltrane sullo stereo Grundig mentre la berlina scura scorreva tra pini che si ergevano all’attenti ai lati di una striscia deserta di Autobahn. I suoi occhiali da sole luccicavano.
In Giappone, mostruosi burattini sbraitarono fuoco e devastarono città in miniatura e giungle bonsai.
Kitano non aveva idea di come fosse Wuppertal, non sapeva che esistesse la Schwebebahn, e non gliene fregava niente. Aveva sorvolato mezzo mondo per incontrare una donna.
In Giappone, Kitano era un venerando tesoro vivente. Pina Bausch era un gusto più difficile. Aveva meno ammiratori, ma non erano meno fanatici. Kitano più di tutti. Rapito dalle sue coreografie, voleva catturarle per il film che sognava di realizzare.
Kitano si perse uscendo dal Dusseldorfer Flughafen, minuscolo in confronto a Narita. Pigiò tasti sbagliati sulla spaziale Blaupunkt. Kraftwerk inframmezzò follemente con il Charlie Haden Quartet. L’asfalto era sorprendentemente sconnesso. Guidava quasi alla cieca. I suoi occhiali da sole, prodotti artigianalmente in una fucina della Ginza, erano pressoché opachi. Era abitutato a guidare sul lato destro, sul lato sbagliato della strada. Era abituato ad avere lo chauffeur. Un piccolo esercito di assistenti vestiti da portaborse mafiosi lo portavano ovunque volesse andare. Aveva iniziato la carriera facendo il comico, prendendo in giro spastici. Passò a dirigere epopee di gangster. Ora si sentiva pronto per affrontare la danza. Desiderava che Pina Bausch gliela insegnasse. La voleva protagonista della sua versione musical giapponificata di Via del tramonto.
Pina Bausch stava allungata sul divano minimale in mezzo al suo imperiale salotto. Nonostante le apparenze, non era gracile. Aveva un’anima di acciaio inossidabile. Martelli di altoforni contavano la sua cadenza cardiaca. Non tollerava danzatori incapaci di imparare le sue spavalde mosse in un lampo, e di eseguirli senza cavilli.
Kitano aveva portato un dono per la ballerina dittatoriale: una spada samurai dal fodero colore della chela di un cervo volante. Vedeva in testa la scena in cui gliela presentava. Pina, o accetti questo ruolo fantastico, o ti decapiterò come nei film propaganda della Seconda Guerra Mondiale. Ridacchiò al pensiero della sua testa con lo chignon che rotolava sul parquet di una pista da ballo. Il titolo provvisorio del progetto era Samurai Salomé.
Pina lo avrebbe ammazzato nel musical, se per evirazione o eviscerazione non aveva ancora deciso.
Pina si spostò sulla poltrona tappezzata di velluto color giada, ma rimase impassiva. Benché il suo sogno erotico fosse un pas-de-deux orizzontale con il granitico regista giapponese, intendeva fingersi civettuola. Aveva vissuto due anni a New York. Aveva visto i musical di Broadway, il viale dei cuori infranti. ‘Pfui,’ pensò, ma il suo cuore batté più forte dentro la voliera del suo petto. Quelle costole striminzite erano di acciaio chirurgico.
Posteggiare non era un problema, a Wuppertal. L’ex-borgo industriale spalmato sulle colline lungo il fiume Wupper era avvolto in un kimono di notte. Le stelle erano gocce di ferro fuso sbrodolate su di un’universale seta nera. Kitano emerse dal veicolo, si allungò e inspirò fresca aria notturna profumata di fonderie morte. ‘Potremmo girare qui,” pensò. “Costerà un casino, ma che importa.”
Vide la sua equipe, nei loro sgargianti piumini, che si facevano in quattro per catturare sublime, effimero movimento nella drammatica luce del nord. “Rifondiamo l’asse Berlino-Tokio, per intrattenimento sofisticato.’
Un avveniristico treno basculante sospeso all’ingiù passò come un fantasma. I suoi fari robotici illuminavano un futuro immaginario.
Pina si vergognava di quanto le piacevano i film di fantascienza. Erano popolari, in Germania. La gente che faceva la coda per la trilogia Star Wars ignorava il Wuppertaler Tanztheater. Pina si vedeva con l’acconciatura di Principessa Leia, che con la sciabola laser trasformava i suoi nemici in arcobaleni di sangue.
Kitano era un duro, non solo sullo schermo. Il suo fisico massiccio era l’incubo di Mishima, un coacervo di muscoli lardati che accettava qualsiasi cencio scelto dai guardarobisti. Pensava alla scena finale di Samurai Salomé: l’uomo in nero e la donna in bianco che si avvicinano cauti, poi il vorticare delle loro lame. L’uomo incespica, e cade in un canale d’irrigazione tra delle risaie. Un futuristico treno riflesso sulle incresapture dell’acqua porta via lo spettatore.
Scese una lacrima sul lato paralizzato della sua faccia da pitbull. ‘Possiamo sostituire un campo di patate,’ pensò.
Kitano suonò il campanello della Bausch Haus. All’interno risuonò un gong.
Pina gli aprì con un gesto simbolico dei travagli delle donne non danzatrici chiamate dal destino a spalancare le porte delle loro dimore. Aveva provato e riprovato i passi, i gesti e le espressioni davanti allo specchio. Aspettava il regista giapponese, ma non aveva alcuna idea di cosa volesse.
Lo divorò con gli occhi. Sentì il suo quasi impercettibile odore, e la consistenza dei suoi capelli, della sua pelle. ‘Liscio e freddo come una lucertola,’ pensò.
“Hai fatto un viaggio lungo,” disse lei. Per qualche ragione credeva che Kitano parlasse tedesco. Si sbagliava. Capiva a malapena l’inglese.
Kitano fissò la maestra ballerina con lo sguardo funesto. Sfoderò il regalo che le aveva portato. La lama sibillò a pochi centimetri dalla maschera scarna di Pina Bausch. Kitano urlò come uno samurai. Rimase immobile un attimo, poi si mise a cantare l’aria d’apertura del musical che aveva in mente. Anziché testi e dialoghi, si immaginava vocalizzazioni primitive, rumorini erotici, carne dilaniata, urla di agonia e panico. Ballando. Tutto il tempo, ballando. Usò il fodero laccato della spada come bastone per il finale tip-tap.
“Per te,” disse, porgendole l’arma. “Buona spada.”
“Mio padre mi promise una spada,” disse Pina. Impossibile dire se afferrò la lama, o se la lama afferrò lei. Le sue mani sembravano calchi di cera, ma i muscoli sotto la pelle traslucida erano quelli di un guerriero. Fece un passo indietro, finse un taglio che sfiorò l’acconciatura stile imperatore romano/yakuza di Kitano. Rifoderò la lama con uno svolazzo. Si tagliò il pollice.
Sgorgò sangue. Pina finse di non accorgersene. Le chiazze rosse sulle mattonelle dell’uscio erano il diagramma di una versione danzata di un rituale di Hermann Nitsch.
A contro B. Positivo è incompatibile con negativo.
O è accettato da tutta la troupe.
Attraverso uno schermo cremisi irrompe un virus vestito di verde.
“Entra, prego,” disse lei, scostandosi. Parlò inglese, che nessuno dei due capiva bene. “Ti andrebbe, ehm, una birra?”
Takeshi Kitano era stanco del volo e dell’Autobahn, ma capì birra. Fece cenno di sì, grugnì, entrò.
Nella tetra luce del salotto, scrutò di nuovo in primissimo piano la dea della danza moderno. Nefertiti nasona che rasentava l’anoressia. Era impossibile in troppi modi. Troppo all’avanguardia, troppo sofisto-primitiva, troppo orribilmente pura. Kitano si era insozzato con la comicità professionale. Portava la macchia come i tatuaggi di uno yakuza, ma aspirava all’arte.
Un incontro ravvicinato con la strada aveva trasformato metà del suo viso in una maschera minacciosa. Pina captò il messaggio sottostante, e toccò quella faccia frantumata. “Qualsiasi cosa vuoi fare,” sussurrò, “puoi contare sulla mia collaborazione.”
Kitano grugnì ancora, e fece cenno di sì. Credeva che lei parlasse di birra. Attraversò la stanza e si buttò in una poltrona di pelle, per stabilire la dominanza. Lei capì, andò con passo servile in cucina, tornò con un boccale spumeggiante.
Kitano trangugiò bollicine bavaresi, mugugnò, fece un ruttino sottovoce. Gesticolando freneticamente, spiegò a grandi linee il concetto di Samurai Salomé. Le note di Richard Strauss fluttuarono verso il suo orecchio destro, quello quasi sordo. Mentalmente traspose il punteggio per flauto di bambù jazz.
Pina espresse smarrimento con ogni fibra del suo essere.
Lui si lanciò dalla poltrona e riprese in mano la spada.
“Ti faccio vedere,” disse.
Così finisce la storia. Succedono, le disgrazie, anche nel mondo dello spettacolo. Forse soprattutto nel mondo dello spettacolo. Al pubblico, al solito, fu rifilata una blanda dissimulazione. Ricordatevi che avete sentito la verità qui su In fuga dalla bocciofila.
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