Di notte restava immobile, concepiva il letto come fosse un sarcofago. Una bara, certo, ma usare la parola ‘bara’ non è appropriato, non si può parlare della morte, soprattutto nell’incipit. ‘Sarcofago’ invece ha quella sfumatura esotica e faraonica che legittima la scelta lessicale. Sarcofago incuriosisce e allo stesso tempo mantiene le giuste distanze. Perché le distanze sono fondamentali: ciò che accade lontano da noi non esiste.
Posizionava cuscini e coperte con cura e ingegnosità, in modo da non doversi più muovere. Non tollerava che lo sfregamento della carne con le lenzuola ⎼ lenzuola nel caso specifico, ma in generale con qualsiasi tessuto ⎼ provocasse una perdita delle sue preziose cellule epiteliali.
Aveva letto su una rivista che ogni giorno perdiamo più o meno un grammo di pelle, circa venti chilogrammi in tutta la vita. Venti chilogrammi. In pratica, proseguiva l’articolo, ogni minuto trentamila cellule muoiono per essere sostituite da nuove cellule. Da quel momento, il pensiero della decomposizione la perseguitava. Sono come una cipolla, piagnucolava: strati, strati e strati ma alla fine di me non resterà altro che un germoglio.
Tra le numerose ossessioni: tagliarsi le unghie, lavarsi i denti, andare dal parrucchiere, depilarsi. Per non parlare del sudore e delle lacrime. Vedeva scaglie di sé dappertutto: in cucina, in bagno, sul divano, nell’armadio. Ma ciò che la terrorizzava sul serio, che quasi le impediva di svolgere una vita sana ed equilibrata, fatta di routine, rapporti interpersonali, cura di sé, piccole cose quotidiane, insomma, il suo incubo più spaventoso era farsi la doccia. Restava in apnea sotto il getto d’acqua, con le mani spalmate sulla porta a vetri e gli occhi strabuzzanti, ciocche di capelli appiccicate alla faccia e alla bocca. Restava in apnea a fissare quella parte di lei che si sgretolava, scivolava sul corpo e scorreva sulle gambe, larghe, e poi più giù, fino ai piedi, ben piantati al piatto di ceramica, con le dita grinzose e incurvate, gorgogliava in una pozza e veniva risucchiata dal tubo di scarico. Dove andava a finire? Cosa ne sarebbe stato di lei?
Guarda che le tue cellule si rigenerano, la rassicuravano, è come quando ti sbucci un ginocchio: sanguini e poi ti viene la crosta e sotto la crosta la pelle si riforma. Fa parte del ciclo vitale della pelle. Fa parte della vita, morire un po’ tutti i giorni per continuare a vivere.
Perdere pezzi.
Guastarsi, decomporsi.
Non si può parlare della morte, soprattutto in fascia protetta, è meglio raccontare una storia, una favola, magari con un dettaglio estraneo, che la allontani geograficamente dalla nostra casa. Circondarsi di pupazzi e marionette e unicorni e altri esseri inanimati. O ancora meglio: incarnare un personaggio, uno qualsiasi, abbozzare un sorriso per mantenere la dignità, un sorriso che diventa smorfia, che ci deforma la faccia, ma in fondo che importa, ogni giorno perdiamo un grammo di noi, in tutta la vita circa venti chilogrammi, e nessuno se ne accorge. Disseminiamo scaglie che nessuno vede, che finiscono nell’aria o nella pattumiera. Spazzatura indifferenziata.
Mentre cerca di dominare queste ossessioni ricorrenti, guarda fuori dalla finestra: un bambino saltella e tiene stretto il filo di un palloncino. È confortante sapere che si può essere ignari di quello che ci accade, non avere la percezione del nostro disfacimento, pensa, quando la mano del bambino allenta la presa e il palloncino vola via. Lo segue con lo sguardo mentre si alza, si impenna, vola sopra la disperazione. Lo sta ancora osservando quando scoppia. Pezzi di palloncino cadono sull’asfalto.

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