L’argentino Lisandro Alonso è uno tra gli autori cinematografici più originali degli ultimi anni. La sua trilogia d’esordio (La libertad, 2001; Los muertos, 2004; Liverpool, 2008) si muoveva tra cinema narrativo e pura esperienza visiva, esplorando il sottile confine tra fiction e non fiction.
Per La libertad, in particolare, si disse che era assai arduo stabilire se si trattasse di un documentario o di una storia di finzione, tale era l’apparente semplicità della pellicola e talmente prosciugata la sua trama narrativa: 24 ore nella vita di un giovane taglialegna. La leggenda vuole che questa “finzione documentaristica” venisse smascherata nel finale originale: il protagonista che scoppia a ridere in macchina perché il regista si era improvvisamente tirato giù i pantaloni. A quanto pare il comitato di selezione di Cannes, poco amante delle astuzie brechtiane per rompere la “quarta parete”, o forse semplicemente dotato di scarso senso dell’umorismo, pretese la rimozione di questa sequenza.
In generale, i protagonisti dei film di Alonso sono sempre uomini solitari, silenziosi e isolati dalla società, ritratti in ambienti selvaggi: un taglialegna, un ex carcerato che attraversa la foresta per tornare dalla propria famiglia, un marinaio che fa visita dopo anni al proprio villaggio nella Terra del Fuoco. Pur assumendo lo stesso punto di partenza, Jauja (2014), la sua ultima opera, batte sentieri nuovi.
Ambientato alla fine dell’Ottocento in Patagonia, il film è incentrato su Gunnar (Viggo «Aragorn» Mortensen), generale danese a capo della spedizione contro la popolazione indigena, e la figlia quindicenne Ingeborg. Quando quest’ultima fugge col giovane fidanzato, Gunnar si mette alla sua ricerca attraverso le terre selvagge della Patagonia; via via che si allontana dalle vestigia della civiltà, il suo viaggio assume caratteri onirici, mitologici e persino metafisici.
Per la prima volta Alonso si avventura in territori “magici”, esplicitando quell’elemento mitologico che nelle opere precedenti era rimasto latente sotto la superficie dell’apparente realismo.
Il film è caratterizzato da una messa in scena radicale e potentissima, che pullula di riferimenti cinefili. Lo scheletro della trama, la centralità dei temi della frontiera e dello scontro con la popolazione indigena e persino gli abiti dei protagonisti rappresentano un chiaro omaggio a Sentieri selvaggi (1956), capolavoro western di John Ford. Nel caso di Jauja, però, l’ambientazione western si carica di valenze metafisiche debitrici del cinema mistico di Andrei Tarkovsky. Da questo punto di vista, il film si inserisce in una lunga tradizione di cinema di paesaggio, di bellezza quasi ultraterrena, in cui i personaggi si perdono (si pensi alla celebre Zona di Stalker) oppure scompaiono, “divorati” dal paesaggio stesso (L’avventura di Antonioni).
Il nome della coprotagonista femminile fornisce un ulteriore riferimento, che è forse la chiave per comprendere la peculiare estetica del film: Ingeborg come Ingeborg Holm (1913), considerato uno dei primi lungometraggi narrativi della storia. Al cinema delle origini rimandano infatti il formato in cui è girato il film (semi-quadrato, agli antipodi rispetto ai formati fortemente orizzontali tipici dei western), i bordi arrotondati della pellicola (come un’antica foto o una diapositiva), la semi-immobilità della macchina da presa e la particolare attenzione per la profondità di campo. Questi elementi, uniti a una cura incredibile nella composizione dell’immagine, rendono Jauja una successione di quadri perfetti, di strabiliante bellezza pittorica.
Siamo dalle parti del cinema più oscuro, sperimentale e intransigente. La pellicola è costruita su una sottile rete di assonanze, di oggetti e figure che ritornano (un soldatino, una bussola, uno stagno, un cane), coerente con la logica narrativa del sogno. Leggende, miraggi e visioni accompagnano il protagonista in un viaggio alla fine del mondo e oltre, verso un finale spiazzante che si apre a infinite interpretazioni.
Eppure, nonostante il rigore della messa in scena e la complessa elaborazione formale, Jauja è anche qualcosa di molto semplice: la storia dell’amore di un padre per la figlia, oltre lo spazio e il tempo. Un sentimento primordiale, travolgente, per il quale vale la pena perdersi e, forse, ritrovarsi unicamente in sogno.
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