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In fuga dalla bocciofila

Blog dal titolo fuorviante in cui si parla di cinema tra una divagazione e l'altra

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It follows | Il fattore A

14 Luglio 2016 di Francesca Corpaci

Il parcheggio di fronte al multisala ha circa mille posti delimitati da linee bianche. L’ho calcolato per perdere tempo, mentre mi domandavo perché ho deciso di venire a vedere questo film, che in realtà è dell’anno scorso ma in Italia è arrivato solo adesso, che tutti dicono che è bello e anche che fa tantissima paura. Io i film che fanno paura non li guardo mai, perché poi la notte devo lasciare la luce accesa, perché non godo nel passare due ore aspettando che qualcuno sbudelli qualcun altro. Ogni volta che ne esce uno, vado direttamente a leggermi la trama su Wikipedia, finale compreso, per ammazzare anche l’infinitesimale ipotesi che mi venga voglia di vederlo. Sono una persona noiosa?

Sono qui, nel parcheggio di fronte al multisala, valutando la possibilità di tornare a casa e andare a letto presto, e poi vedo A.

Quando avevo circa otto anni, per qualche settimana la mia compagna A disertò il suo banco, che era quello accanto al mio. Quando ricomparve era più magra, parlava poco, e tutte le insegnanti erano stranamente gentili con lei. Con discrezione, ci venne comunicato che sua madre se ne era andata in un posto molto migliore di qualsiasi città o meta di villeggiatura alla nostra portata. Un posto situato “lassù”, quindi evidentemente al nord, dove non era mai buio e si andava a star bene. Mentre io e i miei colleghi ci sforzavamo di immaginare come una rassicurante signora di mezza età aveva potuto mollar tutto lì e scapparsene in Norvegia, le maestre chiarirono che sarebbe stato apprezzato se ci fossimo mostrati solidali in quel momento così complicato.

Nessuno di noi, giovani allievi di una scuola per rampolli benestanti e impermeabili ai mali del mondo, capiva bene di cosa si stesse parlando, ma quel mistero su cui non ci era concesso indagare ci rendeva zelanti. Dal suono della prima a quello dell’ultima campanella, orbitavamo intorno alla nostra compagna abbandonata regalandole pezzi di merendine, offrendoci di accompagnarla in bagno e sperando che prima o poi avrebbe rivelato qualche nuovo dettaglio su quel turpe soggetto che non ci aveva pensato un attimo a rifarsi una famiglia con cinque o sei bambini biondi.

Dal canto suo, il corpo docente aveva raccolto la nuova sfida psicodidattica con entusiasmo, convenendo che il metodo migliore per affrontare la situazione fosse lasciare che A facesse rigorosamente qualsiasi cosa le andasse. Disabituata ai regimi repressivi, ma anche aliena a forme estreme di lassismo, questo straordinario stato di cose stupiva e indisponeva la classe, anche se mai quanto il fatto che anche la famiglia di A, o quello che ne restava, avesse iniziato a praticare le stesse politiche. Se non voleva mangiare il bollito alla mensa, A poteva lasciarlo. Se desiderava portare dei giochi a scuola – cosa assolutamente vietata causa pretestuosa livella sociale – poteva farlo. Se voleva andare in infermeria per saltare le lezioni e servirsi cucchiaiate di sciroppo gusto fragola, non aveva bisogno di simulare venti minuti di attacco di tosse per riuscirci.

In quei giorni, grazie ad A, feci una scoperta che mi avrebbe creato non pochi problemi negli anni a venire. Imparai, cioè, che quando ci viene sottratto qualcosa che è nostro, quando eventi terribili ci precipitano in buie voragini di sconforto, l’universo che ci circonda ha l’obbligo morale di darsi da fare per compensare tutta quella sofferenza. In seguito avrei imparato a mie spese che il più delle volte non va proprio così. Comunque.

Uno dei vantaggi più invidiabili che A aveva acquisito grazie al suo status di figlia abbandonata, era quello di poter guardare la televisione a qualsiasi ora del giorno e della notte, ottenendo l’accesso a programmi che per noialtri erano assolutamente banditi. Programmi che per la maggior parte dei ragazzini della nostra età erano solo spot pubblicitari colti al volo in orari protetti, quelli con la gente morta, coi mostri, col sangue. Chi sarebbe Laura Pampers? Com’è la storia che l’ha ammazzata il padre ma anche no, e poi c’è un nano? E il pagliaccio nelle fogne esattamente di cosa si occupa? Perché la vecchia dice il tizio non deve morire ma poi lo sfonda di mazzate?

Così, a ricreazione, A diventava il nostro varco dimensionale verso gli angoli più esotici del tubo catodico, la sacerdotessa del proibito, depositaria di tutti i misteri dei palinsesti Rai e Fininvest. Generosa nella maniera in cui sono generosi i privilegiati, A si sedeva in un angolo del giardino e sosteneva i nostri interrogatori, fornendoci dettagli su serie tv di cui a stento conoscevamo il titolo, raccontandoci minuziosamente le scene più truci di film tratti da immensi romanzi la cui esistenza avremmo scoperto solo anni più tardi, aggiornandoci su chi aveva sventrato chi e chi aveva visto le tette di chi prima di essere sventrato. Da comune scolara nel suo grembiule blu, A era diventata la bambina più popolare della classe, se non di tutta la scuola.

Poi di colpo le elementari finirono e ci ritrovammo nell’inferno delle medie. Studiavamo educazione tecnica, suonavamo il flauto Yamaha comprato in cartoleria e iniziavamo a invecchiare. A frequentava una scuola diversa dalla mia, e dopo un iniziale tentativo di mantenere i contatti tramite inviti alle reciproche feste di compleanno, ci perdemmo di vista. Al posto di colei i cui racconti avevano aperto cunicoli nuovi nella mia immaginazione, mi venne fornita una mandria di amichette brufolose che trafugavano dalle videoteche dei loro genitori le cassette di “Suspiria” e “Toxic Avanger”. A undici anni, l’horror impattò per la prima volta sulle mie cornee. Inutile dire che perse all’istante ogni tipo di fascino.

Oggi, da un lato all’altro del parcheggio la guardo, A. Lei che esce dalle porte a vetro scorrevoli, e vorrei chiederle se ha continuato a guardare gli slasher di notte su Rete 4, se il cosmo le sta ancora pagando i debiti a colpi di arti strappati e effetti speciali gusto lampone, se tra tutti i film che fanno stasera è andata a vedere proprio quello che sto andando a vedere io, quello che in America è uscito l’anno scorso e che fa moltissima paura. Sarebbe bello, se fosse così, perché ci sederemmo in un angolo di questo posto che non assomiglia a un giardino, e lei racconterebbe e io ascolterei. Non ci sarebbero biglietti da pagare, né luci da lasciare accese o parchimetri tra cui aggirarsi per prendere tempo. Tutto sarebbe di nuovo misterioso, attraente e irraggiungibile. Come la Norvegia.

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Postato in: Oceani di autoreferenzialità Tag: David Robert Mitchell, horror, it follows Fai un commento

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